All’alba del primo febbraio, un custode della Università Iulm di Milano compie il suo consueto giro prima dell’inizio delle lezioni: entra nell’edificio 5, apre le porte dei bagni per controllare, ne trova una chiusa dell’interno, la sfonda e dentro scopre una giovane senza vita, con una sciarpa stretta intorno al collo, l’altra estremità legata ad un gancio appendiabiti.

Prima di impiccarsi, la ragazza s’è tolta il giaccone, l’ha piegato con cura e l’ha posato a terra; di fianco al giaccone ha appoggiato la sua borsetta, nella quale ha lasciato un bigliettino scritto con cura: dava l’addio ai suoi genitori, chiedeva loro scusa per tutti i soldi che avevano speso per mantenerla agli studi, e salutava i suoi amici: «La mia vita è un fallimento». Spiegava che il giorno prima avrebbe dovuto sostenere un esame, ma non aveva avuto il coraggio di presentarsi.

Il 27 febbraio, Diana Biondi, giovane studentessa del corso di laurea in Lettere moderne dell’Università Federico II di Napoli, alle 11 del mattino esce dalla sua casa a Somma Vesuviana. «Papà, devo andare a consegnare una copia della tesi», dice a suo padre.

Da tempo aveva annunciato ai suoi la data fatidica della sua laurea: martedì 28 febbraio, l’indomani. Alle 13,30 suo padre Edoardo la chiama: «Il suo cellulare non era raggiungibile, poco dopo mi ha inviato un messaggio», racconta, «in cui mi diceva che doveva andare in biblioteca, e che sarebbe rientrata a Somma Vesuviana con il treno delle 16 da Napoli».

Alle cinque di sera Diana non è ancora rientrata, il papà preoccupato continua a chiamarla fino a quando Diana non gli invia un altro messaggio che lo mette in allarme: «Non posso parlare». Poi il nulla.

Tre giorni dopo, il corpo di Diana viene ritrovato in fondo a un dirupo sul monte Somma, sotto al santuario della Madonna di Castello.

Prima di lanciarsi nel vuoto ha appeso la sua borsetta all’inferriata, e dentro ha lasciato un biglietto in cui spiegava le ragioni del suo gesto. Non era vero che stava per laurearsi- scrive- le mancava l’esame di latino, ma non aveva avuto il coraggio coraggio di confessare la verità ai suoi cari.

Le storie di queste due povere ragazze hanno molti punti in comune. Entrambe si sono tolte la vita perché non erano riuscite a confessare ai loro genitori e agli amici un evento innocuo come un esame mancato, che invece per loro rappresentava un fallimento enorme e indelebile.

Entrambe erano convinte che di fronte alla società bisogna apparire perfetti anche a costo di mentire, ma quando il peso della verità e della vergogna si è fatto per loro insopportabile hanno deciso di auto-eliminarsi dal consorzio umano. 

Le ragioni

I casi di suicidio di queste due ragazze non sono isolati. Secondo l’Istat, nel 2021 in Italia i ragazzi tra i 14 e i 19 anni che si dichiarano infelici e che affermano di soffrire di un qualche malessere psicologico sono 220 mila. Ogni giorno, in Italia un giovane si toglie la vita. Questo fenomeno è comune a quasi tutti i paesi del mondo.

I Centers for Disease Control, enti governativi che monitorano la sanità pubblica negli Usa, hanno appena pubblicato una indagine sui comportamenti a rischio dei giovani: il 42 per cento  dichiara di provare “sentimenti di tristezza e disperazione”, una percentuale che sale al 57 per cento tra le ragazze, mentre solo dieci anni fa erano solo il 28 per cento; il 22 per cento del totale dei giovani ha pensato al suicidio, il 30 per cento delle ragazze, mentre solo dieci anni fa erano il 13 per cento.

Questa tendenza all’aumento del malessere giovanile è confermata anche in Italia. Secondo i dati dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che mantiene le statistiche più aggiornate al riguardo, in Italia negli ultimi dieci anni c’è stata una crescita  dei ricoveri in pronto soccorso per tentativi di suicidio da parte di giovanissimi.

La situazione è peggiorata drasticamente nei primi due anni di pandemia: il numero dei giovani che hanno ideato o tentato il suicidio è aumentato del 75 per cento rispetto al biennio precedente, quello dei giovani che commettono atti di autolesionismo del 60 per cento. Oltre l’80 per cento dei tentativi di suicido è messo in atto da bambine e ragazze, l’età media è di circa 15 anni, la più giovane aveva 9 anni.

Spiega Stefano Vicari, Direttore del Reparto di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Bambino Gesù e professore dell’Università Cattolica: «L’ansia e la depressione sono aumentate notevolmente anche tra i bambini e gli adolescenti. La pandemia ha poi ulteriormente accentuato questa tendenza, e gli studi più recenti indicano come una percentuale compresa tra il 20 e il 25 per cento dei giovani manifesti i segni, rispettivamente, di un disturbo d’ansia e di depressione. E in questo contesto ragazzi e ragazze depresse presentano molto spesso, in associazione, comportamenti autolesivi – danneggiano, cioè, volontariamente il proprio corpo con tagli, bruciature, escoriazioni – ideazione e tentativi di suicidio».

Perché l’hai fatto?

Negli ultimi cinque anni ho frequentato molte comunità psichiatriche dove sono in cura adolescenti e giovani che soffrono di qualche forma di grave disagio psichiatrico, e ho incontrato molti ragazzi e ragazze che hanno tentato il suicidio.

A ognuno di loro ho chiesto: “Ma perché l’hai fatto?”, e quasi tutti mi hanno dato la stessa risposta e mi hanno raccontato una storia comune.  Come Bianca, che ho conosciuto quando era ricoverata in una clinica in mezzo a un bosco sulle Prealpi, a pochi passi da Milano.

Bianca ha ventun’anni, ed è originaria di un paesino in provincia di Varese. Bianca ha tentato il suicidio. Me lo ha raccontato così:«Temevo di non valere nulla, di essere inadeguata, di essere inutile. I miei genitori - mi ha detto - non mi hanno mai considerata, mi hanno sempre costretta a fare quello che volevano loro, a vestirmi come volevano loro, a mangiare come volevano loro, ad iscrivermi alle scuole che volevano loro, e ad essere brava come volevano loro. A scuola dovevo essere perfetta, se portavo a casa un voto sotto il nove erano tragedie, non me lo dicevano apertamente ma facevano la faccia triste, e poi mi dicevano che avrei potuto impegnarmi di più. Nello sport dovevo essere perfetta. Mi sono scritta all’università, a medicina, la facoltà che volevano i miei. Ho dato il primo esame – ho preso 30 e lode ovviamente – poi non ce l’ho fatta più, ho smesso di frequentare, ma ai miei non ho avuto il coraggio di dire nulla».

Bianca inizia a singhiozzare. «Il problema era che tutta questa perfezione a me non interessava. Anzi, non mi faceva sentire mai all’altezza, per questo era in preda all’angoscia. Andare a scuola e poi all’università era diventato un peso insopportabile. Questa sensazione di inutilità è durata per anni. Allora ho deciso di suicidarmi, buttandomi dal tetto di casa mia. Mi ricordo tutto perfettamente, io che mi lancio nel vuoto, che cado a terra ma rimango cosciente, non riesco più a muovermi e allora vedo che le mie gambe e le mie braccia sono distrutte, poi l’ambulanza che arriva e mi portano in ospedale. Ha solo riportato molte fratture alle gambe e alle braccia, che sto curando con molte operazioni. Io desideravo solo una cosa: volevo morire per far cessare tutto il mio dolore».

 Bianca chiude il suo racconto con una frase che mi gela il sangue: «Non sono stata neanche capace di suicidarmi, sono proprio una incapace». È passato un anno e da quel giorno, Bianca sta meglio e ha deciso che vale la pena vivere.

Troppa ansia 

I suicidi collegati alla depressione e all’ansia sono la seconda causa più importante di morte tra i giovani, dopo gli incidenti stradali. Con la pandemia di Covid, poi, depressione, ansia e suicidi stanno persino aumentando perché i nostri figli hanno patito le ansie della solitudine che ha moltiplicato i loro pensieri ossessivi.

Perché i tentavi di suicidio sono così diffusi? Nella nostra società, ognuno di noi fin da bambino viene abituato, o meglio addestrato, ad eseguire compiti che devono obbedire a una precisa norma o raggiungere determinati standard.

Quella di oggi la potremmo definire la società della performance. Un bambino deve essere ubbidiente a casa, deve essere bravo a scuola, deve entrare nella migliore università, deve essere il primo nello sport, deve eccellere a danza, deve essere magro, deve mangiare cibi sani, poi deve procurarsi un lavoro di prestigio.

La società impone norme, che vengono trasmesse alla famiglia, e da qui ai figli. Talvolta, qualcuno dei nostri figli non ce la fa, si ribella, e si chiede «Perché lo devo fare? Perché devo essere così?», e chi non ce la fa più prova disagio, sopraffatto da questa ansia da prestazione, soffre, e talvolta cade.

Qualcuno potrebbe obiettare: ma da sempre la società occidentale ti chiede di eccellere a scuola e nel lavoro, oppure nello sport, o in qualsiasi altro campo della vita.

Dagli anni Cinquanta i genitori spingevano affinché il figlio frequentasse le scuole migliori, poi si laureasse bene per ottenere un posto di lavoro prestigioso che gli permettesse una sfolgorante scalata sociale. E allora, che cos’è cambiato? La risposta è facile: è cambiata la società attorno a noi.

Una società di solitudini 

Un tempo la società era più coesa, c’erano molti corpi intermedi che potevano attutire qualsiasi forma di disagio e di malessere. Le famiglie spesso abitavano in grandi case dove al piano di sopra abitavano i genitori con i propri figli e al piano di sotto i nonni.

Spesso lavorava solo uno dei genitori, la madre stava a casa ad accudire i figli. Quando i genitori erano assenti, i nonni si prendevano cura dei nipoti. Finita la scuola, i bambini e gli adolescenti giocavano tutti insieme in strada, o nel cortile del palazzo, oppure in parrocchia.

Per un giovane c’erano anche molte altre forme di aggregazione- come i centri sociali, le associazioni politiche o culturali, lo scoutismo.

Insomma un bambino, un adolescente o un giovane in crescita non si trovava mai da solo ma era sempre immerso in una società.

C’erano sempre occhi e orecchie che lo sorvegliavano: i genitori, i nonni, o la compagnia dei pari. Se un giovane mostrava qualche primo sintomo di malessere psicologico era difficile che passasse inosservato. Qualcuno - la madre, un nonno o un amico- gli avrebbe subito chiesto: «Sei triste? C’è qualcosa che non va?»

Oggi queste forme di coesione sociale e di mutuo aiuto sono saltate. Ogni giovane cresce molto più isolato dagli altri. I genitori spesso lavorano entrambi, e quando ritornano a casa la sera sono poco disposti a dare ascolto ai propri figli, stressati dalle proprie personali ansie e preoccupazioni. I nonni quasi sempre non vivono sotto lo stesso tetto e non possono prendersi cura dei nipoti.

I genitori si preoccupano del fatto i loro figli stanno a casa da soli, e allora li fanno crescere da bambinaie a pagamento; oppure, ansiosi di assicurare loro l’educazione più completa possibile, li spediscono prima a scuola di calcio, poi a inglese, poi a ripetizione, riempiendo l’agenda dei figli quasi fossero indaffarati manager adulti.

Ma in una società come questa, un giovane non forma legami stabili con i propri pari, non riesce a farsi degli amici, e cresce praticamente da solo. Su tutto prevalgono l’ansia da prestazione e l’individualismo.

Ragazzi invisibili 

«I ragazzi di oggi io li definisco gli invisibili», mi dice il professor Sergio De Filippis, psichiatra e direttore sanitario di Villa Von Siebenthal, una comunità di Genzano, alle porte di Roma, dove si curano giovani che soffrono di disagio psichico.

«Anche oggi ho visto in terapia una ragazzina di 13 anni, che mi ha detto, guardandomi negli occhi: “Ma a lei i suoi genitori le parlavano? Perché a casa mia quando chiedo una cosa mi dicono: no, stai zitta che stiamo lavorando. Io con chi devo parlare?” Una volta si pranzava insieme, si parlava, ora no. Siamo tutti molto più individualisti, isolati, presi dalle nostre ansie. E ci dimentichiamo dei figli. Questo è drammatico, si perde il ruolo della famiglia e si rafforza l’amicizia esterna, creiamo tanti ragazzi invisibili. Da una parte chiediamo ai nostri figli di eccellere, di essere bravi, poi però gli togliamo la parola e non li ascoltiamo. Allora i nostri figli cercano fuori, sui social, quello che non trovano in casa. Lì si sentono ascoltati e non giudicati».

E come mai ci sono così tanti suicidi?, gli chiedo.

«Una volta, quando le famiglie erano unite, c’era qualcuno che si accorgeva subito se un figlio stava male. Invece adesso no, non si parla, nessuno dà loro ascolto. Adesso i giovani hanno solo un modo per fare capire agli altri che stanno male: compiere un gesto tanto eclatante che nessuno può voltarsi dall’altra parte a fare finta che non sia avvenuto».

Il più delle volte i ragazzi chiedono aiuto tagliandosi, abusando di farmaci o addirittura tentando il suicidio: questa è la prima fase della richiesta effettiva di aiuto da parte del ragazzo. Spiega il professor De Filippis, «Fino a dieci o vent’anni fa i genitori mi portavano i figli perché erano tristi o avevano litigato in casa, avevano spaccato una porta o avevano smesso di mangiare. Adesso no. Spesso arrivano da noi giovani che hanno tentato il suicidio e i genitori ci dicono “Non ci eravamo accorti di niente”. Tentare il suicidio per questi ragazzi è l’unico modo per dire: io esisto e sto male».

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