«La prospettiva del governo è solida», ma «a questo punto tutte le forze politiche hanno indicato le priorità al presidente Conte, era il percorso iniziato il 5 novembre e ora bisogna in fretta chiudere questa fase. Non si può vivere nell’incertezza in eterno». In un seminario del gruppo dem di Bruxelles sul Recovery fund, a cui partecipano anche il commissario Paolo Gentiloni e il ministro per il Sud Beppe Provenzano, il leader Pd Nicola Zingaretti lascia trasparire la preoccupazione per i tempi incerti della verifica di maggioranza. Gli fa eco il ministro degli Affari europei Enzo Amendola: «Con tutto il rispetto per le richieste di chiarimento, non possiamo fermarci. Questo progetto deve realizzarsi, e sarebbe una grave responsabilità per la classe politica ora fermarsi».

Amendola – come il segretario – è uomo cautissimo e pronto a contestare chi dice che il governo sia in ritardo sui fondi del Next generation Ue. Ma ora anche lui è costretto a fare qualche calcolo, calendario alla mano. L’incontro a palazzo Chigi fra il premier Giuseppe Conte e la delegazione di Italia viva, giovedì sera, è durato un quarto d’ora. Il tempo della consegna del documento con le richieste di Matteo Renzi per continuare a far parte della maggioranza. Venti punti, alcuni dei quali potenzialmente in grado di far saltare il banco: come la richiesta di un’autorità delegata per i servizi segreti, che Conte non avrebbe intenzione di nominare; e la richiesta di utilizzare il Mes sanitario, di cui i Cinque stelle non vogliono sentir parlare.

Fare presto

Ora la palla passa al premier. È lui a dover prendere un’iniziativa, mettere i leader della maggioranza attorno a un tavolo e concordare un programma per il rilancio della stagnante azione di governo. E se la versione che è passata è che «se ne riparla a gennaio», per il Pd i tempi devono essere più rapidi possibile. «Poi non è un giorno in più o in meno che cambia», viene spiegato. Ma meglio un giorno meno. Intanto per non dar ragione a chi – ancora Renzi – accusa il governo di immobilismo.

E poi perché c’è tutto il dossier Recovery fund da affrontare: a partire dalla (contestata) task force dei supervisori. «Mi auguro che il governo prestissimo approvi la bozza e permetta l’apertura di un’altra fase, quella del confronto con le forze parlamentari e con la società italiana», ha detto ancora Zingaretti ai suoi eurodeputati, «tutti sono bravissimi ad alzare il dito e indicare i problemi ma pochi si cimentano con la realtà nel risolvere i problemi. Basta con le parole, le contrapposizioni e le furbizie». Non viene nominato, ma si parla di Renzi. Che, agli occhi del Pd, ha il torto di aver sollevato problemi reali – l’inerzia del premier – ma minacciando la crisi, e attaccando il premier nel giorno in cui era al tavolo della trattativa con gli altri leader europei. Dunque costringendo l’alleato a schierarsi in difesa di palazzo Chigi.

Renzi lo avrebbe fatto per una regione tutta personale: dimostrare che, nonostante il fallimento di Italia viva, dà ancora le carte nella maggioranza. «Specie in questo momento così drammatico, non serve una crisi ma un patto di legislatura che permetta di rilanciare l’iniziativa del governo. Non ultimatum, duelli continui e spettacolarizzazioni», ha insistito ieri il vicecapogruppo Pd alla Camera Michele Bordo. «Renzi pone questioni che possono anche avere un fondamento», ragiona Brando Benifei, capogruppo Pd a Bruxelles, «ma alzare i toni e minacciare crisi di governo nel mezzo di uno dei momenti più drammatici degli ultimi anni, vuol dire non aver capito cosa sta accadendo nel paese».

Si dice Renzi, ma ormai nel Pd si legge Conte. Ora sta a lui trovare una sintesi per la sua maggioranza. Magari proponendo un nuovo programma per arrivare alla fine della legislatura. Avendo stavolta l’accortezza di non fare fughe in avanti, come quell’annuncio di task force a mezzo stampa che ha scatenato la bufera.

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