Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha fornito un’informativa in Senato in merito alla recente vicenda relativa ad alcune navi di organizzazioni non governative (Ong) e agli sbarchi delle persone a bordo. Siccome lo schema di tale vicenda sembra destinato a ripetersi in occasione di prossimi arrivi di migranti, può essere utile un fact checking delle dichiarazioni fatte dal vertice del Viminale. Il fact checking può anche essere un vademecum sulle risposte da fornire a chi – in programmi televisivi, radiofonici o altrove – faccia affermazioni analoghe a quelle del ministro.

«Il porto sicuro avrebbe dovuto essere indicato dagli stati di bandiera in cooperazione con gli stati costieri limitrofi»

Questo principio non trova riscontro nel diritto internazionale in tema di salvataggi in mare. La Convenzione delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos) prevede solo che lo stato di bandiera debba esigere che il comandante della nave presti soccorso a chiunque sia trovato in condizioni di pericolo, procedendo «quanto più velocemente è possibile al soccorso» stesso.

Lo stato di bandiera non è considerato parte attiva delle operazioni nemmeno dalla convenzione Sar (Search and Rescue), integrata dalle linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare, elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Ris. MSC.167-78, 2004). Queste ultime stabiliscono (punto 6.7) che ad occuparsi del coordinamento dei soccorsi sia non il paese di bandiera, bensì il paese del primo centro che viene a conoscenza del naufragio (Rescue Coordination Center, Rcc), il quale deve poi trasferire il comando al paese responsabile della zona Sar dove è avvenuto l’incidente. Anche il tribunale dei ministri di Palermo, nel caso Open Arms, ha confermato che «deve escludersi che lo stato di “primo contatto” si identifichi con quello di bandiera della nave che ha provveduto al salvataggio».

Secondo Piantedosi, siccome l’accesso dei migranti sulla nave equivale all’accesso sul territorio dello stato di bandiera (art. 92, Unclos), ciò attiverebbe la norma del Regolamento di Dublino (n. 604/2013, art. 13) che individua nello stato di primo arrivo la competenza ad accogliere i migranti e ad esaminarne le domande di asilo.

Il ministro omette di esplicitare che, in un evento di salvataggio, tale norma dev’essere coordinata con quella che prevede che le attività di soccorso si concludano sulla terraferma, nel “posto sicuro” (place of safety) più vicino a quello dove è avvenuto il soccorso, e in cui le persone possano esercitare ogni diritto, inclusa la richiesta di asilo. Quindi, il primo posto di arrivo del migrante coincide con lo stato di sbarco, non con lo stato di bandiera. Del resto, in un naufragio nel Mediterraneo, potrebbe mai essere considerato “posto sicuro” più vicino un paese del nord Europa, ad esempio, se la nave batte la sua bandiera?

«Non può essere un soggetto privato a scegliere (…) il paese dove sbarcare i migranti, determinando con ciò stesso l’applicazione delle regole di Dublino sugli stati di primo ingresso»

Al ministro andrebbe evidenziato innanzitutto che, siccome la nave è un posto sicuro solo “temporaneo”, i comandanti dovrebbero essere sollevati dagli obblighi di assistenza alle persone tratte in salvo non appena siano organizzate soluzioni alternative (punto 6.13 delle citate linee guida): ma talora gli stati non rispondono alle richieste di soccorso.

Detto ciò, se una nave effettua le comunicazioni dovute all’autorità marittima della zona Sar in cui si trova e a quelle di zone Sar limitrofe – come le navi delle Ong interessate dalle recenti vicende hanno dichiarato di aver fatto – senza ricevere riscontro o ricevendo l’indicazione di un posto non sicuro, il comandante continua a restare investito del compito di portare i naufraghi in salvo.

Egli deve svolgere questo compito considerando le circostanze contingenti, «come la situazione a bordo della nave di assistenza, le condizioni meteorologiche, le esigenze mediche e la disponibilità di mezzi di trasporto o altre unità di soccorso» (punto 6.15 delle linee guida). Dunque, a differenza di ciò che dice Piantedosi, il comandante della nave non solo può, ma deve scegliere dove sbarcare i migranti, valutando quale sia posto sicuro più vicino, se le autorità marittime che egli abbia contattato non gli forniscono le indicazioni dovute.

«Se (...) le navi Ong si dirigono verso i porti di uno stato diverso da quello responsabile del coordinamento nell’area Sar senza osservare le procedure previste e in violazione delle leggi nazionali dello stato costiero in materia di immigrazione, è legittimo considerare il transito di tali navi quale “passaggio non inoffensivo”, ai sensi dell’art. 19 della Convenzione Unclos».

Il citato art. 19 considera «non inoffensivo» il passaggio di navi dedite ad attività di imbarco o sbarco di persone in violazione delle leggi in materia di immigrazione. Per Piantedosi, la mancata informativa delle operazioni di soccorso alle autorità marittime da parte di navi delle Ong – mancata informativa che va comunque dimostrata – farebbe scattare una “presunzione di colpevolezza” a carico delle navi.

Se esse non danno notizia dell’inizio delle operazioni, ciò potrebbe significare che non stanno effettuando un salvataggio, bensì un preventivato e intenzionale trasporto di migranti per favorirne l’ingresso illegale in Italia. Questa “presunzione di colpevolezza” solleva molti dubbi. Non basta una mancata comunicazione alle autorità preposte a trasformare un’operazione di soccorso in un’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Ciò trova conferma nelle convenzioni internazionali. L’obbligo di salvare la vita umana in mare, infatti, vincola sia gli stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 Unclos) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 Solas, nonché delle norme nazionali, ad esempio l’art. 489 del Codice della navigazione). «Non si può quindi precludere il passaggio inoffensivo ad una nave che ha soccorso persone in pericolo, anche al di fuori del mare territoriale, qualora questa intenda entrare al fine di perfezionare il proprio obbligo di salvare la vita umana in mare», e «sul punto la giurisprudenza italiana è copiosa e pressoché unanime» (Giuseppe Cataldi).

Un’ultima precisazione: il ministro continua a ripetere che non si può entrare in Italia senza permesso di soggiorno, quasi a voler giustificare il suo potere di vietare l’ingresso delle navi delle Ong nel mare territoriale. Anche a questo riguardo il ministro omette di esplicitare che sia il Testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998, art. 10-ter) sia il Regolamento di Dublino (art. 13) prevedono proprio il caso di entrata in maniera irregolare, disciplinando le procedure da seguire anche ai fini dell’esame della domanda di asilo, che devono svolgersi necessariamente a terra, come spiegato.

Se la politica è fatta di narrazioni, è quanto mai importante che non diventi narrazione pure il diritto. Purtroppo è ciò cui stiamo assistendo, ed è importante contrastare questa tendenza, finché si è in tempo.

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