Il nuovo regolamento sui contratti dei collaboratori parlamentari a Montecitorio è già nel mirino della maggioranza, con Fratelli d’Italia in prima linea. L’obiettivo è quello di modificare le norme praticamente prima che possano davvero entrare in vigore. L’effetto, però, sarebbe quello riportare la situazione al far west degli anni scorsi. La delibera era stata approvata, come ultimo atto della scorsa legislatura dietro la spinta dell’ex presidente della Camera, Roberto Fico, che sul dossier ci aveva messo la faccia, promettendo un intervento.

Il testo licenziato dall’ufficio di presidenza rappresenta un compromesso, che garantisce un minimo di diritto al personale esterno di Montecitorio, i cosiddetti portaborse che con la loro attività consentono ai deputati di svolgere la propria attività. Come? Scrivendo effettivamente le proposte di legge, preparando le interrogazioni e gestendo talvolta l’agenda. Almeno quando si fa ricorso ai professionisti del settore.

Contratti stoppati

La Camera dei deputati (Agf)

Secondo quanto apprende Domani, le principali resistenze sull’applicazione della normativa si sono registrate in Fratelli d’Italia con i deputati che lamentano l’eccessiva rigidità della delibera. E hanno, in alcuni casi, sospeso la sottoscrizione di contratti con i collaboratori, per un supplemento di riflessione nell’attesa di capire se il quadro possa cambiare nuovamente.

L’Associazione dei collaboratori parlamentari (Aicp) ha già chiesto che sia applicata la normativa, senza ipotetici colpi di mano. «Rispetto ai rumors provenienti, qualunque cambio di rotta o l’adozione di modifiche, senza alcun confronto con l’associazione delle regole appena introdotte sarebbe un segnale devastante per la credibilità e attenzione ai diritti dei lavoratori da parte del nuovo ufficio di presidenza», dice Josè De Falco, presidente dell’Aicp.

Le soglie attuali

La scelta, dopo il via libera alla riforma, è tra la destinazione del 50 per cento delle spese per l’esercizio del mandato, che ammontano a 3.690 euro (di cui solo la metà deve essere obbligatoriamente rendicontata), del 75 per cento o dell’intera quota. Queste ultime soluzioni sono, tuttavia, ritenute improbabili.

Le soglie sono state indicate per garantire ai lavoratori del palazzo un minimo salariale di 1.840 euro al mese (in realtà la busta paga media sarebbe di 1.700 euro da spalmare su tredici mensilità), con gli uffici della Camera chiamati a operare come sostituto di imposta per garantire puntualità nei pagamenti e nel versamento dei contributi.

Azioni che, non sempre, i deputati in passato hanno provveduto a compiere. Sono requisiti minimi che però non convincono i parlamentari: la somma è considerata troppo alta perché non consente di avere a disposizione la dotazione per le altre spese necessarie all’esercizio del mandato, come l’eventuale affitto di ufficio, organizzazione di eventi e stampa di materiali.

Ma di mezzo c’è anche la somma che mensilmente viene destinata dagli eletti ai partiti di appartenenza. Al posto di attingere dall’indennità parlamentare, viene usato il bacino delle spese per l’esercizio del mandato. Così i 3.690 euro diventano pochi.

Obiettivo riduzione

Il presidente del Senato Ignazio La Russa (Agf)

Per questo una delle tentazioni, in particolare di Fratelli d’Italia, sarebbe quella di introdurre un’ulteriore soglia, il 25 per cento del plafond di 3.690 euro. Una strada che sarebbe una sostanziale beffa per i collaboratori, che rischierebbero di dover accettare accordi al di sotto dei mille euro.

Un’altra opzione che circola è quella di non ingabbiare le tre fasce, dando maggiore discrezionalità nella scelta: ognuno sceglierebbe la percentuale da dare. Così da cancellare gli effetti della delibera di Fico.

L’insofferenza nel partito di Giorgia Meloni diventa chiara guardando all’orientamento del Senato, presieduto da uno dei dirigenti di spicco di FdI, Ignazio La Russa. A oggi ancora non si è messo in moto per equiparare la normativa sui collaboratori, visto che l’ex presidente Maria Elisabetta Casellati non aveva completato la riforma: alla riunione decisiva, anche in questo caso all’ultimo giorno utile, mancò il numero legale, creando una condizione di disparità tra le due camere.

Così, mentre i partiti all’esterno garantiscono di voler contrastare il precariato, all’interno degli stessi palazzi c’è chi vorrebbe conservare degli inquadramenti atipici, tra partite Iva e contratti senza minimi garantiti. E sul punto De Falco mette in guardia: «Dovere della Camera è attuare quanto disposto al meglio e in modo chiaro e tempestivo, rispondendo ai quesiti operativi che l'associazione ha formulato e che sono rimasti senza risposta».

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