Finisce l’estate e anche Carlo Bonomi, il presidente della Confindustria, torna dalle vacanze per infliggerci l’ennesima intervista di lamentele e velate minacce. Nel lungo colloquio con il direttore della Stampa, Massimo Giannini, il solo passaggio memorabile è quello in cui Bonomi ammette: “Noi non siamo poteri forti e non preferiamo un bel niente”, nel senso che non auspicano un governo di larghe intese al posto del Conte II.

Tutto il resto dell’intervista è una sorprendente ammissione di impotenza. Sorprendente non perché qualcuno pensi che la Confindustria abbia ancora il potere di condizionare i destini del paese, ma sorprende che il suo presidente abbia sentito l’urgenza di esternarlo. Nessun lobbista, di solito, ci tiene a spiegare ai suoi clienti di essere poco influente.

Bonomi, invece, esplicita tutta la sua irrilevanza politica: il governo non risponde ai piani di riforma proposti da Confindustria, sulla base della logica della “democrazia negoziale” (prima di fare leggi, chiedete a noi), il sindacato osa programmare scioperi senza prima consultarsi con gli industriali, quello screanzato del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, non scatta sull’attenti quando Bonomi pretende di sapere i nomi degli imprenditori che hanno ottenuto aiuti sulla cassa integrazione senza aver avuto cali di fatturato (ma lo stesso Bonomi ammette di avere le idee poco chiare su come funziona il decreto).

Poi, secondo lo stile ormai familiare del personaggio, Bonomi passa alle minacce: qui si rischia un milione di disoccupati. Poiché i lavoratori si trovano disoccupati quando un’impresa li licenzia, il senso della previsione apocalittica pare chiaro: se il governo non risponde alle nostre sollecitazioni, saremo costretti a trasformare la crisi economica in una crisi sociale.

“Noi non siamo poteri forti”. Su questo Bonomi ha ragione, ma è troppo comodo scaricare tutte le responsabilità sulla politica e su un governo palesemente lento, confuso, pasticcione ma che non è certo l’unico soggetto responsabile della reazione del paese alla pandemia e del conseguente disastro economico.

Negli Stati Uniti, tutte le richieste alla politica di regolamentare la vendita delle armi da fuoco si scontravano con il potere delle lobby che bloccavano ogni tentativo di imporre veri limiti. La frustrazione degli elettori cresceva. Allora la pressione degli attivisti – e di giornalisti come Andrew Ross Sorkin del New York Times – si è spostata sulle imprese e sugli amministratori delegati: volete davvero avere i vostri dividendi e stock option sporchi di sangue? Neppure i lobbisti possono impedire le campagne di boicottaggio o ai clienti di cambiare supermercato.

Grandi catene come WalMart si sono adeguate, imponendo limiti più stringenti di quelli previsti dalla legge. Alcuni consumatori hanno protestato, ma il risultato è che comprare armi e munizioni è più complicato di prima. A volte gli amministratori delegati possono agire in modo più rapido ed efficace dei ministri.

Tutto questo per dire che se anche il governo tentenna, la Confindustria e in generale gli imprenditori italiani possono fare molto per determinare l’esito di questo difficile autunno.

Molte grandi aziende stanno costringendo i loro dipendenti a tornare alla normalità, a intasare di nuovo tangenziali e autostrade per essere presenti in ufficio, talvolta soltanto per placare capi ansiosi di avere i sottoposti a portata di voce, altre hanno deciso di tenere i dipendenti in smart working ma non hanno mai adeguato organizzazione del lavoro, orari e retribuzioni.

In tutto il settore dei servizi si vede un grande sforzo di tornare al mondo di prima, invece che consolidare il cambiamento imposto dal virus, sia per ragioni di precauzione (meno persone si muovono, minori sono le occasioni di contagio) sia di produttività.

Lo smart working è la più inattesa e profonda rivoluzione gestionale e culturale degli ultimi cent'anni, che può permettere all’Italia di combinare aumenti di produttività e conciliazione dei tempi di vita tra lavoro e famiglia, se la transizione viene gestita e non soltanto subita. Le ripercussioni sul welfare sono complesse, il peso ripartito tra uomini e donne ineguale, ma ci sono anche enormi potenzialità. Eppure di tutto questo non si trova traccia nelle giaculatorie di Bonomi o nelle interviste quasi quotidiane di Conte.

È chiaro che una maggiore diffusione dello smart working darà vincitori e vinti: perderanno ristoranti, bar, aziende di buoni pasto, casellanti di autostrade a pedaggio, ma cambierà il potere di acquisto di molte famiglie (stipendi da città spesi in periferia), milioni di italiani potranno organizzare meglio la loro giornata, serviranno spazi di co-working in quartieri o cittadine che fino a prima del Covid-19 erano soltanto dormitori, paesi sperduti avranno una nuova vita, se dotati di una connessione internet decente.

Ecco, questi enormi cambiamenti sembrano interessare poco al governo. Ma forse è anche meglio così, perché è giusto lasciare che sia il mercato a trovare un nuovo equilibrio. Però queste novità dovrebbero interessare moltissimo alla Confindustria e a Bonomi, uno che ancora si stupisce di essere stato tra le poche figure istituzionali presenti a Rimini ad ascoltare Mario Draghi (hanno inventato la tv e perfino le dirette Facebook, caro Bonomi, in tempi di Covid-19 sono particolarmente utili).

Una Confindustria che pensasse davvero a come le imprese possono plasmare la società, invece che limitarsi a mendicare sussidi, potrebbe magari esercitare il suo residuo potere di lobbying per rompere lo stallo sulla rete per la banda larga, perché una buona connessione è la premessa per tutto il resto, dalla didattica a distanza allo smart working. Sul dossier si esercitano un po’ tutti, da Beppe Grillo al sottosegretario Stefano Buffagni fino allo stesso Conte. Ma in ultima analisi è una vicenda prima di tutto imprenditoriale che riguarda Tim, Open Fiber, il suo azionista Enel, e anche la Cassa depositi e prestiti. Ma sulla questione neanche una parola.

Bonomi avrebbe tutti i titoli per chiedere che, nell’interesse dei suoi associati, le parti coinvolte antepongano gli interessi del sistema a quelli di parte: Tim non vuole svendere la sua rete, Enel non vuole svendere la sua quota di Open Fiber, il governo non vuole creare un nuovo monopolio verticale sull’infrastruttura con il proprietario della rete che offre anche servizi.

Nel settembre di settant'anni fa Milton Friedman scriveva un famoso articolo sul New York Times per argomentare che l’unica responsabilità sociale delle imprese è fare profitti.

Il dibattito economico si è molto evoluto, nei decenni successivi, molte imprese hanno sposato a una logica di “egoismo illuminato” in base alla quale hanno interesse anche a tutelare la propria reputazione, il territorio in cui operano e a coordinarsi a livello sovranazionale per affrontare sfide troppo grandi anche per i governi, come la crisi climatica.

In assenza di profitti, in Italia alcuni imprenditori hanno deciso che il loro dovere verso la società si limitasse alla richiesta di protezione e rendite alla politica. Invece hanno molte altre responsabilità.

In questo difficile momento le imprese hanno il dovere, oltre che l’occasione storica, di guidare il cambiamento verso una nuova normalità post Covid. Quelle che scelgono di limitarsi ad aspettare il prossimo decreto legge del governo e a vivere di assistenza, almeno non ci infliggano anche le loro lamentele.

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