È molto istruttivo analizzare l’operato di Enrico Letta nel suo primo mese da nuovo segretario del Partito Democratico. Non parlo (più) della sua nomina: l’ennesima scelta dorotea di una figura la cui caratteristica principale è quella di essere “non divisiva”, una brava persona di specchiata e indiscutibile onestà e di altrettanto indiscutibile – non ce ne voglia Letta – mancanza di massa critica ideologica. Quella di Letta è una scelta continuativa, tipica di chi da tempo vuole prendere tempo e poi altro tempo, così che il prendere tempo diventa un perderlo, il tempo; e il temporeggiare diventa non il processo ma lo stato stesso del partito, non il mezzo ma il fine, in una metamorfosi in cui si è sempre in transito, sì, ma verso nessun luogo.

Cos’ha fatto, dunque, Enrico Letta in questi primi quaranta giorni? Si è pronunciato. Su: eredità di Zingaretti, rapporti con la sinistra di Bersani, rapporti con la scissione renziana, rapporti coi 5Stelle, ius soli, diritti per le donne (le nomine a capogruppo di Malpezzi e Serracchiani), ddl Zan, primarie per il sindaco di Roma. C’è un comune denominatore in quest’agenda, fatta di battaglie etiche di antidiscriminazione incrociate a vigilanza urbana nel traffico partitico? C’è: sono tutte battaglie a costo zero. Interventi – sacrosanti e lodevoli, lo diciamo da subito – che evitano però tutte quelle questioni che di norma caratterizzerebbero la matrice identitaria di qualsiasi sinistra a ispirazione socialista progressista: il tema dei lavoratori e, in generale, delle classi povere.

Battaglie laterali

Che fosse questo l’obiettivo di un nuovo, mai nato Pd, era del resto già scritto nelle parole di Zingaretti quando, nel maggio 2019, riaprendo la sezione di Casal Bruciato, teatro dieci giorni prima di una rivolta popolare, aveva annunciato: «Torniamo in periferia per restarci». E diceva anche, proponendosi di spostare la sede del partito dal centro alla Tiburtina: «Ed è solo l’inizio. La prima tappa di un grande progetto nazionale che io avevo promesso per riportare la presenza dei democratici nelle periferie… non quando c’è l’evento drammatico, ma 365 giorni l’anno».

Si può dire oggi – tre anni, una pandemia e un segretario dopo – non solo che quelle promesse non siano state mantenute, ma che non si voglia più nemmeno provare a mantenerle. I teatrini con le processioni di parlamentari dem a Tor Bella Monaca non si fanno neanche più per le telecamere. Le accuse di essere «il partito delle èlites», di aver perso completamente di vista le classi disagiate viene ricevuto con malcelata rassegnazione. La pandemia non ha modificato questa mancanza: lo ha casomai reso più colpevole ed eclatante. In questo Enrico Letta è drammaticamente continuativo con Zingaretti: la sua agenda evita sempre, accuratamente, questo convitato di pietra: e assistiamo, per compensazione o forse per cattiva coscienza, a un forsennato fuoco di copertura di battaglie laterali.

Capisco bene, usando il concetto di “battaglie laterali”, di cadere in una trappola retorica anche troppo facile: perché – si dirà, indignandosi – le questioni di genere e di principio sono laterali, non decisive, procrastinabili? Trascurandole, non si fa forse il gioco delle destre? Del resto, si potrebbe dire con un filo di malizia che lo scopo di quell’agenda era proprio questo: far scattare la tagliola della malafede su chiunque provasse a evidenziare il quasi nulla politico di questi quaranta giorni.

Bisognerà dunque ogni volta chiarirlo, giustificarsi da ciò che non avrebbe neanche bisogno di essere giustificato: no, non si obietta nulla alle giuste rivendicazioni delle minoranze etniche, sessuali e di genere – è giusto combattere per esse, ed è giusto che queste battaglie trovino casa nella sinistra. La sinistra deve essere il luogo delle debolezze, delle minoranze, delle marginalità, di ogni punto di fragilità sociale. Ma anche queste minoranze – e chi, non sempre in buonafede, interpreta le loro battaglie – dovrebbero chiedersi se non si stiano loro prestando, sia pur per legittime ragioni di interesse specifico, a fare da foglia di fico a un Pd che ancora una volta omette sia nei fatti che nelle parole la sua funzione primaria: il motivo per cui aspira a essere una forza maggioritaria.

Non nominare le cose

Bisognerà chiedersi allora, e chiederlo anche al mai troppo onesto e innocente Letta, a cosa serva un Pd che furbamente, sistematicamente sostituisce l’azione politica con quella etica, e accusa di conservatorismo chiunque provi a ricordargli quelli che (anche, se non soprattutto) ha il dovere storico di rappresentare. Un Pd che si aggrappa forsennato a ogni questione mediatica, ma che non è mai il primo a proporne una: segno estremo della sua irrilevanza. Un Pd patologicamente incapace di imporre nel dibattito pubblico i temi del lavoro, della disoccupazione, del caro affitti, della gentrificazione, delle periferie, della sicurezza, dei salari, del costo della vita, del ricambio generazionale, della lotta alla speculazione finanziaria.

Un Pd molto galante, che ritiene volgare parlare di soldi, e fa finta di non capire che ogni questione razziale, sessuale e sociale nasce e si radica a partire da una questione di classe. Giacché tutti sanno, ma non si può dire, che è quasi impossibile vedere in Italia un docente universitario di colore, un bancario donna, un dirigente d’azienda transgender, perché in Italia i percorsi di alta professionalità stanno diventando – in un vergognoso silenzio generale – un percorso possibile quasi solo a chi ne possiede il privilegio economico. Tutti sanno, ma non si può dire, che essere una donna povera, una persona di colore povera, un omosessuale povero, un transgender povero, è cosa molto diversa dall’esserne uno ricco. Che i cambiamenti dell’ordine culturale non si operano nel codice penale, ma nei luoghi dell’istruzione e della cultura. Solo che i primi sono gratis, mentre istruzione e cultura costano. Si potrebbe continuare. Ma questo – a meno di vedersi dare dei destrorsi o, nel migliore dei casi, degli insensibili – non si può e non si deve dire.

Il Pd di Enrico Letta continua pacifico a perpetuare il proprio tabù, l’elefante nella stanza di cui non si deve parlare: il disagio di classe. Così che poi si finisce col definire i tumulti degli ultimi tempi come «proteste dei ristoratori», con imbarazzo, con timidezza, guardando altrove. E lasciando, stavolta sì, alle destre più estreme e antidemocratiche delle proteste che non sono “di categoria”, come si vorrebbe far credere, ma vere e proprie manifestazioni di classe. Ma il Pd di Enrico Letta ha capito l’insegnamento del suo predecessore: non nominare le cose, sperando che non usando il nome, sparisca anche la cosa.  

Il Pd del mai divisivo Enrico Letta continua a selezionare accuratamente le battaglie che intende combattere, e così facendo butta il bambino insieme all’acqua sporca, e divide quello che dovrebbe rimanere unito: il corpo sociale del Bisognoso. La lotta della sinistra non è innanzitutto contro le destre, ma contro la povertà; non innanzitutto contro Salvini e Meloni, ma contro l’ingiustizia insita nelle strutture sociali e nei dispositivi di potere; non contro gli antieuropeisti, ma contro le condizioni materiali che ostacolano il diritto di ogni cittadino alla felicità. Senza una sinistra che – nella parafrasi di Oscar Wilde ripresa da Slavoj Zizek – osi pronunciare il proprio nome, ogni battaglia sarà persa in partenza.

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