È lungo, cordiale, un tantino esibito l’abbraccio fra il vecchio presidente del Consiglio – asciutto e abbronzato, in grande forma – e il suo ex giovanissimo sottosegretario. Si consuma a favore delle telecamere sul palchetto montato dentro la galleria Sordi, proprio sotto palazzo Chigi, per la prima romana del libro Strana vita, la mia (con Marco Ascione, edito da Solferino). Parterre da centrosinistra da grande evento, forse un po’ grande freddo, sotto la mascherina si indovinano ex ministri,  Giovanni Maria Flick, Maria Pia Garavaglia, Graziano Delrio,  Paola Severino, Alessandro Bianchi a braccetto con Alfonso Pecoraro Scanio ormai uniti nel raggismo, c’è anche Gian Maria Gros Pietro, a cui Prodi cedette la presidenza dell’Iri. Ma c’è anche una piccola folla di vecchi ulivisti, quelli del sogno interrotto. Che applaudono all’abbraccio: la stretta fra i due serve a smentire i titoli dei giornali che non hanno resistito alla “notizia” del freddo nel barometro dei rapporti fra il professore Romano Prodi e Enrico Letta, allievo anche suo, ma soprattutto di Beniamino Andreatta.

Sarebbe un caso gustoso se la madre di tutti gli ulivi, anzi il padre, alla vigilia del voto amministrativo e cruciale, sconfessasse l’ultimo tentativo di rimetterne in piedi una mezza pianticella. Prodi in effetti aveva suggerito al Pd di occuparsi di sociale, dopo tanta, forse troppa passione per i diritti civili, dallo ius soli alla legge Zan. Ma, giura, no, non era una critica al segretario dem.

«È divertente come vanno le notizie: i titoli dicevano “Prodi bacchetta Letta” e poi non c’erano i contenuti. Semplicemente siamo d’accordo che la ripresa deve andare insieme a un grande slancio dell’economia e della solidarietà sociale. Se non lo fa il Pd, chi lo deve fare? Ed Enrico è assolutamente in grado di farlo». Letta ringrazia e svela un segreto di pulcinella, la sua telefonata all’ex premier prima di accettare l’elezione a segretario del Pd: «Come in tutti i passaggi chiave della mia vita ci sono poche persone a cui ho chiesto consiglio. Romano Prodi è una di queste». Prodi assicura che da quel giorno non è cambiato nulla: «Il nostro dialogo iniziale continua».

Insomma, tutta colpa dei giornalisti, all’epoca dell’Ulivo era sempre così. Come il sospetto che il professore aspiri ancora al Quirinale, e che abbia scritto un libro autobiografico per darsi un aiutino: «Ho 82 anni, per un incarico settennale è un’incoscienza». Da cui però discende un corollario: che sarebbe un’incoscienza anche se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, suo quasi coetaneo – ha compiuto 80 anni a luglio – accettasse un secondo mandato. In effetti ha già fatto capire che non lo farà. «Mattarella è un siciliano silenzioso, secondo me non cambia idea», dice Prodi. Notoriamente Enrico Letta non la pensa così, cioè fin qui puntava a convincere Mattarella, ma oggi sul punto tace, «ho preso l’impegno di non parlarne fino a gennaio». Forse tace anche perché ha saputo che Prodi ha ragione.

La destra di una volta

I due si fanno i complimenti. Sono anche d’accordo su Berlusconi, l’arcinemico (due volte battuto) di Prodi: per lui la richiesta di perizia psichiatrica da parte dei giudici del processo Ruby ter «è una follia». Per Letta c’è di più: «Il centrodestra non esiste senza un federatore. Il centrodestra un tempo aveva in Berlusconi un federatore che i due leader di oggi non sanno essere». Non c’è più la destra di una volta: «È evidente che quel il centrodestra non ha nulla a che vedere con il centrodestra salviniano-meloniano. Manca in Meloni e Salvini l’ancoraggio europeo». Prodi: «L’Europa sta spaccando la Lega».

Duettano ancora su palazzo Chigi: «Il Pd sta con Draghi senza però». Prodi: «Con Mattarella, Draghi e Enrico Letta alla guida del Pd messi bene».

Ma il professore si può consentire qualche critica in più di Letta, che invece è un sorvegliato speciale dai draghisti di casa sua: «Il governo di oggi ha riacquistato un’immagine internazionale forte ma non abbiamo grandi imprese italiane che siedano ai tavoli dove si prendono le decisioni dei settori più importanti. Occorre una politica industriale». Ce l’ha, ma non lo dice, con il ministro Giancarlo Giorgetti.

Siamo alla corrispondenza di amorosi sensi. Letta offre la paternità delle sue “agorà” al primo Ulivo e al suo inventore, di cui si propone come erede se non, nell’entusiasmo, vera reincarnazione: «In questi anni ho riapprezzato la potenza delle scelte difficili che Romano ha fatto nel 1995 e nel 1996. Il senso del suo impegno politico è stato cambiare la storia di questo paese. Io lavoro con generazioni di ragazzi che fanno politica perché c’è stato Prodi. Ha cambiato per sempre e in meglio la politica italiana».

Prodi accetta il complimento e l’investitura. E a Letta dà del «bravo federatore», un ruolo che «per farlo devi rompere il gioco di quelle tre-quattro persone», il riferimento è chiaramente ai capicorrente del Pd, comunque è ottimista, «è il ruolo che sta coprendo, è obbligato. È un lavoro di difficoltà, lunghezza e pesantezza. Anche con i Cinque stelle. Se no chi federa?». Prodi dice che la federazione si può fare, dall’alto del suo know-how di risse interne alle coalizioni che ha inventato e presieduto: «Ero l’ottavo di nove figli, la prima cosa che ho imparato era a non esistere, a stare al mio posto, poi a mettere d’accordo tutti».

L’ultima gli è riuscita due volte al voto, le uniche due volte che il centrosinistra ha vinto in Italia, anche se poi per due volte la coalizione non ha retto. Letta sta ancora un bel pezzo indietro nella storia, ma prende appunti. 

 

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