Il nostro paese soffre di forti disuguaglianze di genere: le donne italiane sono penultime per tassi di occupazione e prime per carico di cura tra i paesi europei. L’Italia è distaccata anche dai cosiddetti “paesi latini” come la Spagna che pur partendo da condizioni economiche e storiche di svantaggio ha fatto enormi progressi: la rappresentazione politica femminile è già da un decennio al 40 per cento contro il nostro 11 per cento. Questa discriminazione strutturale ha costi sociali ed economici oramai insostenibili per il nostro paese e non si può scegliere un intervento rispetto a un altro.

Le proposte devono essere realizzate nel loro insieme per essere efficaci. Si tratta di interventi noti, per cui c’è evidenza scientifica di un impatto positivo e che sono parte anche della strategia europea per l’uguaglianza di genere, ripresa a sua volta dal piano Colao e dal Pnrr: si concentrano nel campo del lavoro, della salute e della cultura, ed è proprio quest’ultima a fare la differenza.

Prendiamo gli investimenti in asili e scuole di infanzia: l’economista Angela Del Boca stima che la cifra stanziata nel Pnrr sia sufficiente, ma il circolo virtuoso che questo investimento dovrebbe generare sull’occupazione femminile per avere un reale impatto necessita anche di una migliore distribuzione dei congedi parentali e di un sistema fiscale che non penalizzi il secondo lavoratore in famiglia.

Un altro esempio chiaro è quello della detassazione del lavoro femminile: l’economista Enrico Rubolino ha mostrato che questo intervento ha incentivato le assunzioni delle donne nelle imprese ma non ha avuto effetti positivi sul divario salariale di genere: la quota di occupazione femminile è aumentata, la produttività aziendale anche ma a fronte di un taglio sul costo del lavoro di 100 euro le aziende hanno aumentato il salario netto delle donne solo di circa 14 euro. Le imprese hanno assunto più donne lavoratrici, comunque a basso salario rispetto agli uomini, e pagando meno tasse. Quindi per ridurre il divario economico tra donne e uomini non basta detassare le imprese, serve anche detassare i redditi femminili, o introdurre imposte differenziate per genere, aumentare la trasparenza sui comportamenti aziendali, raccogliere sistematicamente dati del monitoraggio e dei bilanci di genere, condizionare gli appalti pubblici, estendere la efficace legge Golfo Mosca sulle quote di genere nelle aziende quotate, a tutta l’amministrazione pubblica, a partire proprio dalla gestione del Pnrr. Insomma, si tratta di cambiare profondamente la cultura della classe dirigente del paese e dei cittadini.

Classe dirigente

Le valutazioni dell’impatto del Pnrr sul divario di genere spiegano che per più dei due terzi degli interventi mirati alle donne (3,1 miliardi circa o l’1,6 percento del programma) la possibilità di incidere per ridurre divari esistenti dipenderà molto dai dettagli dell’attuazione e dunque dalla capacità di chi materialmente sarà preposto a promuoverli e alla reazione agli incentivi da parte del pubblico.

Le scelte che compiono le famiglie e le imprese nella loro quotidianità, infatti, sono influenzate da una complessità di incentivi e disincentivi, dall’insieme delle politiche e se queste politiche che disegnano la realtà sono nel complesso sbilanciate a favore degli uomini i risultati saranno sempre deludenti.

Per questo la misura fondamentale è la formazione alla parità di coloro che sono incaricati esplicitamente dei cambiamenti culturali nel settore pubblico e privato.

La formazione alla parità si basa fondamentalmente sul contrasto agli stereotipi di genere che sono estremamente diffusi in modo sia esplicito che inconsapevole e formano la base dei persistenti divari di genere che osserviamo nella vita sociale ed economica (ad esempio nell’istruzione e nelle scelte scolastiche, nel mercato del lavoro, nella rappresentanza politica e nella divisione del lavoro nelle famiglie). Gli stereotipi sono scorciatoie cognitive; li usiamo automaticamente per generare aspettative sul comportamento degli altri, e quindi attribuiamo l’aspettativa di ciò che pensiamo che un gruppo faccia a una persona che proviene da quel gruppo. La minaccia di stereotipo influisce poi sulla performance: l’esposizione a pregiudizi verso il proprio gruppo influisce sullo sforzo, sulla fiducia in sé stessi e sulla produttività. La formazione professionale per contrastare i pregiudizi inconsapevoli, basata su principi di psicologia e di management, viene già utilizzata in vari contesti aziendali per ridurre le fonti involontarie di discriminazione, e quando incorpora un coinvolgimento attivo dei partecipanti permette di trasformare in modo positivo diversi aspetti del loro lavoro: i casi più classici riguardano la selezione e promozione del personale e la formazione di gruppi di lavoro con effetti positivi in settori come quello medico in cui per esempio è stato dimostrato che il training contro i pregiudizi inconsapevoli incide positivamente sulla prevenzione e cura delle donne.

Educare i decisori

La formazione alla parità si basa su questi principi e fornisce strumenti per riconoscere e contrastare gli stereotipi di genere promuovendo il talento e l’efficacia delle politiche attraverso un disegno che tenga conto delle diverse necessità prospettive ed esperienze di donne e uomini.

L’istituto europeo per la parità di genere (Eige) fornisce gratuitamente toolkit per disegnare training alla parità e offre anche un monitoraggio delle best practices a livello europeo dal nord al sud del continente. Un esempio? In Svezia con un investimento di 12 milioni di euro, poi aumentati di altri 22, considerati i risultati positivi, è stato promosso un piano di formazione alla parità per 66mila tra rappresentanti e funzionari degli enti locali e sono stati realizzati 87 progetti. L’idea di base è semplice: servizi che considerano gli interessi delle donne sono servizi comunali migliori. In Andalusia il governo regionale redige dal 2005 un bilancio di genere che possa essere di indirizzo alle politiche regionali. In Grecia si è deciso di formare le donne elette nei consigli comunali, tre donne per ogni consiglio comunale, per un totale di 1500 persone formate. E così via.

In Italia non partiamo da zero: ci sono iniziative di training aziendali presenti soprattutto nelle multinazionali e le partnership promosse da istituzioni come ValoreD, ci sono diverse università ed enti di ricerca che stanno costruendo percorsi di training come parte dei Gender Equality Plans obbligatori per accedere ai fondi europei. Anche per quanto riguarda la scuola l’Ue fornisce una serie di buone pratiche e per gli insegnanti già esiste un obbligo formativo in diverse aree e fondi dedicati alla formazione, dunque il costo di questi progetti riguarda principalmente la formazione dei formatori che, come abbiamo visto, è in gran parte già disponibile in forma gratuita. Quello che serve è un progetto per la classe dirigente. Sarebbe importante che queste politiche siano sottoscritte in modo trasversale: tutte le donne che verranno elette dovrebbero impegnarsi a collaborare in modo bipartisan per la loro attuazione.

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