Trovo molto interessante la discussione di questi giorni sui malumori di alcuni cattolici democratici nei confronti delle prime scelte operate di Schlein. Prima di spiegare quel che mi pare il punto fondamentale, vorrei però dire che non sono per nulla interessato all’occasione per cui questi malumori sembrano esplodere: le posizioni della segretaria sulla gestazione per altri (Gpa). Per due ragioni fondamentali.

La prima ragione riguarda la capacità della destra di dettare l’agenda comunicativa della politica nazionale. Questo mi sembra un caso eclatante: la questione del Gpa non mi pare provenga da un’urgenza particolare imposta dal presente. Ha conquistato il centro della scena perché alcuni esponenti della destra l’hanno utilizzata come strategia difensiva – del tutto impropria oltretutto – per rispondere alle accuse rispetto alla scandalosa scelta di discriminare, bloccando una sacrosanta direttiva europea, i bambini nati da famiglie arcobaleno.

Una strategia comunicativa plateale quanto risibile: cambiare discorso. Ora, come è possibile che abbia avuto successo? Se al governo c’è la destra, dovremmo tutti discutere di ciò che può fare il governo, non di ciò che non può comunque fare l’opposizione. Dovremmo parlare dei diritti negati dei bambini, non della Gpa, sulla quale fino a prova contraria il Pd non può far nulla dall’opposizione. La seconda ragione è che mi pare ormai evidente che questo incessante spostamento della discussione interna al Pd sulle questioni etiche serve a non affrontare definitivamente la natura delle sue posizioni sociali, sciogliendone i nodi di ambiguità.

Dunque non è il contenuto immediato del dibattito che mi attrae, quanto la sua forma. Il suo interesse sta nell’essere un pretesto per ripristinare una discussione sul destino culturale del Pd, cosa che per mesi abbiamo ritenuto fosse necessaria ma che come d’incanto si è interrotta subito dopo l’elezione della nuova segreteria (a dimostrazione di quanto sia difficile abituarci ad uscire da schemi e discorsi tutti orientati da una politica senza cultura e del tutto disinteressati alla cultura della politica).

La nascita del Pd

Come è noto, il Pd nacque da una tesi politico-culturale ben precisa: che fosse necessaria non solo un’alleanza, ma anche una mescolanza tra due culture di riferimento essenziali per la storia della repubblica, il cattolicesimo democratico e gli eredi post-comunisti (nelle varie sfumature, ovviamente). Come ricorda Damilano, questa necessaria unità dentro una casa comune di due tradizioni che provenivano da storie ostili fu vista da molti come una scelta naturale o, almeno, inevitabile.

Ecco, io credo che la questione determinante per comprendere non il passato del PD ma il suo futuro sia riflettere su quella scelta, per capire se le ragioni di allora funzionino ancora adesso. Se cioè una mescolanza sia politicamente più efficace di un’alleanza. Io stesso non ho una risposta certa. Credo che vi siano buone ragioni per pensare che un partito che unisca culture così diverse rischi di finire per non averne più neanche una o diventi un terreno in cui la mescolanza diventa una rivalità che si ravviva ogni volta che c’è da eleggere un segretario. Allora sarebbe probabilmente preferibile una alleanza esterna che un’ostilità interna. Però al contempo riconosco che quelle culture si sono di fatto mescolate fino a non essere più distinguibili e che forse è arrivata l’ora di dichiarare che quelle categorie hanno fatto il loro tempo.

Ci sono però alcuni elementi di certezza. Non v’è dubbio che il Pd ha inteso fondere le due grandi culture popolari di questo paese. Ambiva ad essere l’erede dei grandi partiti di massa del Novecento. Se non ci è riuscito non è certo solo per colpe proprie. È infatti accaduto che nel frattempo non si sono estinti soltanto i partiti di massa, ma anche le culture popolari. Quelle grandi culture si sono ristrette e sono diventate piccole piccole, fino a corrispondere più o meno al perimetro di alcune élites che si contendono le direzioni dei partiti o dei giornali, ma che non riescono più a costruire consenso. Lasciando così spazio all’unica cultura popolare rimasta – quella che definiamo in modo piuttosto vago come neoliberismo (che vuol dire mille cose, ovviamente. Ma tutte dentro un’idea di mondo orientata dal bisogno del Capitale di mettere sotto tutela la politica e la società).

Qualcuno a questo punto potrebbe legittimamente sostenere che la risposta più semplice alla questione che sto ponendo è: l’unità fondativa del Pd non si basa più tanto sull’essenza identitaria delle eredità di quelle culture politiche che l’hanno innervata, ma piuttosto sul costruire un fronte che contesti le politiche dell’unica cultura popolare rimasta, il neoliberismo. È una risposta generosa ma forse troppo semplice, perché non credo basti essere d’accordo su ciò che non si vuole per illudersi di essere d’accordo anche su ciò che si vuole. E dunque torniamo al punto iniziale. Quelle due culture politiche sono ancora così attuali da poter uscire dagli steccati elitari per diventare forze propulsive e popolari? E, nel caso lo siano, la loro mescolanza le indebolisce o le rafforza? Per quanto possiamo continuare a eluderle, credo che prima o poi dovremo trovare il coraggio di rispondere a queste due domande.

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