L’argomento è tra i più gettonati: gli italiani non seguono la politica e vanno poco a votare. Soprattutto se si tratta di referendum. Nel caso del referendum costituzionale del 20 e 21 settembre, senza quorum, si era teorizzato che la bassa affluenza, determinata anche dalla paura di andare a votare a causa della pandemia, avrebbe favorito il no. Era la tesi di tutti i sondaggisti: Fabrizio Masia, Emg Acqua, diceva al Riformista che «chi si informa di meno va dietro alla vox populi e quindi in questo caso avvantaggia il Sì, chi si informa di più in questa occasione tendenzialmente voterà No. Quindi se votano in pochi, le percentuali cambiano e possono andare a favorire il No». «A fine luglio solo il 22 per cento degli elettori sapeva del referendum. Adesso la percentuale è raddoppiata, ma questo non significa che chi conosce il quesito prenderà posizione», diceva invece Antonio Noto, direttore di Noto Sondaggi su Libero, spiegando che «i cittadini sanno benissimo che è inutile andare a votare: non c’è quorum».

Invece, se ci fosse stato il quorum, il referendum costituzionale lo avrebbe superato con un’affluenza al 54 per cento. Lo stesso è avvenuto negli ultimi due referendum costituzionali: a quello sulla riforma Renzi-Boschi del 2016 ha votato il 65 per cento degli italiani; a quello sulla riforma della seconda parte della Costituzione, nel 2006, votò il 52 per cento.

In entrambi i casi, il referendum non era fissato in concomitanza di altre elezioni, politiche o amministrative. Solo nel referendum costituzionale del 2001, sulla riforma del Titolo V, la partecipazione si fermò al 34 per cento. Anche se, nel caso del referendum sul taglio dei parlamentari, in sette regioni si è votato alle elezioni amministrative e lo stesso è avvenuto in circa mille comuni, il dato di affluenza non è stato influenzato in modo decisivo. Se è vero che in Veneto, Toscana, Marche, Puglia, Liguria e Campania la partecipazione al referendum è stata tra il 60 e il 65 per cento, in regioni popolose ma non chiamate al voto amministrativo come Emilia Romagna, Piemonte, Lombardia e Lazio l’affluenza si è attestata comunque tra il 47 e il 55 per cento.

Il picco di votanti, oltre al 73 per cento della Valle d’Aosta dove si votava anche per eleggere il consiglio regionale, si è registrato in Trentino Alto Adige, dove ha votato il 70 per cento degli aventi diritto. Non sono certo numeri da Prima repubblica, in cui l’affluenza alle urne toccava picchi da 90 per cento, ma gli italiani, quando sono chiamati a esprimersi sulla Costituzione, si mettono in fila davanti ai seggi a prescindere dal quorum.

A non scaldare i cuori, all’opposto, sono i referendum abrogativi con quorum: dal 2000 ad oggi, nelle 6 occasioni di voto, solo in un caso è stato raggiunto. Il dato rileva in chiave politica, perché sposta gli orizzonti della tattica dei partiti che si schierano per un esito o per l’altro. Se la mancanza del quorum nel referendum costituzionale potrebbe portare a pensare ad un esito che favorisca una dittatura della minoranza, l’alta affluenza dimostra il contrario. Di conseguenza, la strategia dei sostenitori della posizione minoritaria (nel caso del referendum di ieri, quella del No) non può essere quella di far leva su una bassa pubblicizzazione del voto, puntando sul fatto che solo gli elettori politicamente più impegnati sul tema referendario vadano alle urne.

Astensione e protesta

Attenzione, tuttavia, a dare per scontato che l’afflusso di votanti sia direttamente proporzionale a una maggior salute della democrazia e che l’astensionismo si possa tradurre solo con la definizione di “partito del non voto” e dunque come espressione di un giudizio univoco e negativo nei confronti dell’amministrazione politica attuale.

Non è detto che una bassa affluenza alle urne sia necessariamente critica rispetto ai partiti e alla gestione politica. La scienza politica divide in almeno due categorie gli astenuti: la prima è quella dell’astensionismo di protesta, per cui la scelta di non votare è attiva e in polemica con lo status quo che l’elettore sente di non poter modificare con il suo voto; l’astensionismo apatico, invece, ha le sue radici «nel ruolo marginale della politica nell’orizzonte psicologico di molti elettori nelle moderne democrazie di massa», scrive il sociologo Mauro Cerruto.

Il fenomeno dell’apatia è generato, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, dalla caduta delle ideologie, dalla progressiva scomparsa dei partiti di massa nelle democrazie mature e dal passaggio generazionale tra i padri costituenti a i loro eredi, meno sensibili alla rilevanza civica del voto.

Questa seconda categoria si traduce in un giudizio di «apatica adesione nei confronti del sistema politico», scrive il politologo Marco Valduzzi. Il fenomeno si può osservare in particolare nelle democrazie del nord Europa, dove l’affluenza alle urne alle elezioni politiche rimane comunque più alta rispetto a quella italiana ma ha subito una flessione. Nelle cosiddette “democrazie felici”, si teorizza che la buona amministrazione abbia portato ad un allontanamento dei votanti che considerano ininfluente l’esito delle urne, perché la fiducia nel sistema è talmente alta che non ritengono possa essere messo in discussione da chiunque vinca le elezioni.

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