Mancano ancora tre anni al post Mattarella, ma la partita per il Quirinale condiziona già ora le scelte dei leader. Se Meloni rivince, punterà in primis su La Russa. Poi su Mantovano. Le mosse anticipate del vicepremier di FI. L’ex commissario Ue? Se facesse il federatore del centrosinistra, le sue chance crollerebbero
È rimasto impassibile, Ignazio La Russa, con la faccia freezata in un’espressione tetragona, giovedì mattina, nella prima fila della Sala della Regina di Montecitorio, mentre dal palco venivano raccontate le atrocità dei fascisti. Lo storico Mario Toscano parlava dei poliziotti che disobbedendo al Duce «hanno contribuito al salvataggio degli ebrei braccati» e si sono opposti alla «politica anti ebraica della Repubblica Sociale di Mussolini», «oggettiva premessa delle future deportazioni».
La presentazione dei libri Fecero la scelta giusta sulle storie di eroici poliziotti definiti giustamente «patrioti» perché «antifascisti», officiata dal presidente Lorenzo Fontana, alla presenza di Sergio Mattarella e del rabbino Riccardo di Segni, per il presidente del Senato è stata l’occasione per un utile quanto molesto ripasso.
Per esempio, il giornalista Aldo Cazzullo ha ricordato che i Bozen, il battaglione al servizio delle SS sterminato dai partigiani a via Rasella nel marzo ‘44, si rifiutarono di sparare contro i martiri delle Ardeatine. Dunque non erano «una banda musicale di semi-pensionati», come sostenne La Russa. Il presidente ha assistito stoicamente alla lezione magistrale (di antifascismo) offerta dall’ufficio studi storici del Viminale di Matteo Piantedosi, presente al suo fianco ma visibilmente molto più a suo agio. Da La Russa neanche un fiato, per un’ora e mezza.
Alla fine si è fiondato a stringere la mano al rabbino, come sollevato che la lezione fosse finita. La Russa si è già rimangiato le parole sui Bozen, presto dovrà rimangiarsi anche la rocciosa professione di anti-antifascismo, se da seconda carica dello stato vuole diventare la prima.
«Campa cavallo», rispondono i suoi, la successione di Mattarella si voterà nel 2029, prima ci saranno le politiche. Ma, arrivati al giro di boa della legislatura, ora chi ambisce al Colle deve cominciare a comportarsi da Colle. E non è un mistero che Giorgia Meloni miri, oltreché alla sua conferma, anche a un altro riscatto storico: eleggere un uomo di destra-destra al Quirinale. E La Russa è il suo primo della lista.
Lo scacco del «sorvegliante»
Ci ha già provato, del resto, nel 2022. Nel libro Fratelli di Chat (di Giacomo Salvini, PaperFirst), c’è un capitolo meno turpiloquiante degli altri ma politicamente molto istruttivo: i messaggi che i “fratelli” si scambiavano nei giorni della rielezione di Mattarella. Racconta del tentativo guidato da Meloni di saldarsi con il M5s di Conte per eleggere Elisabetta Belloni; persino lei, che subito dopo ha rotto con Alfredo Mantovano, tutto pur di non rieleggere Mattarella, che avrebbe fatto da «sorvegliante», il copyright è di Guido Crosetto, al futuro governo di destra.
La Russa ha dalla sua che non è al governo («E il passaggio dal governo al Colle è sempre ostico», racconta un vecchio navigatore democristiano). Ma è il nome più hard. In subordine c’è Mantovano, responsabile dei Servizi segreti, cattolico tradizionalista, vanta rapporti con la parte anti Bergoglio del Vaticano. Parla poco, è il suo skill rispetto al ciarlierissimo e spericolatissimo La Russa. O a Guido Crosetto, candidato di bandiera allo scorso giro, che però in questa legislatura si è un po’ troppo esposto su complotti che poco si adattano al Colle più alto. Dalla rosa dei papabili è invece uscito Marcello Pera, forzista liberale salito sul carro della premier, senatore. Che però ha preso malissimo il fatto che lei gli ha preferito Carlo Nordio alla Giustizia: da lì ha cominciato a menare come un fabbro sul premierato. Ora si è calmato. Ma Meloni non è una che dimentica.
«È presto per parlarne», esordisce un forzista di mondo che offre un ragionamento onesto in cambio di non essere citato. In realtà è il momento di cominciare a pensare al Colle perché la legislatura ha doppiato il suo giro di boa e da ora in poi tutti i quirinabili faranno scelte in base alle proprie aspirazioni. «Tocca a noi, tocca a un moderato. Se Giorgia Meloni resta a palazzo Chigi, cosa più che probabile, al Colle ci deve andare uno di noi: una post fascista di qua e un ex fascista di là è troppo».
Antonio Tajani per esempio ci crede, è convinto che la Farnesina sia il curriculum perfetto per l’ascesa alla più alta carica. Che può vendicare l’ultima figuraccia di Silvio Berlusconi, la sua pretesa di essere il candidato della destra al Colle, finita con una tristissima ritirata.
Dal lato centrosinistra, cresce la consapevolezza che stavolta si rischia l’osso del collo, anzi del Colle. Come disse Franco Evangelisti, centravanti di sfondamento andreottiano, in una assemblea di parlamentari dc, nella primavera 1985, quando Craxi, un socialista, era presidente del Consiglio, e bisognava preparare la successione a Sandro Pertini, altro socialista: «Abbiamo perso le mutande, cioè palazzo Chigi, ora proviamo a non perdere il culo, cioè il Quirinale». Francesco Cossiga fu eletto alla prima chiama. L’espressione evangelistica è colorita, ma sarà bene che la tengano a mente anche i contemporanei e i detrattori della Prima Repubblica: il rischio è un uomo di destra-destra al Colle, per la prima volta nella storia della Repubblica. Addio «pedagogia costituzionale» di Mattarella, addio «sorvegliante» della Carta.
Inutile dunque perdere tempo con la folla degli eterni papabili. Romano Prodi è ancora in gamba ma comunque nel ‘29 avrà novant’anni; Walter Veltroni è l’eterno promesso presidente, da anni si porta avanti onorando i morti degli altri (dai fratelli Mattei a Sergio Ramelli) e sostenendo un’idea bipartisan di sicurezza (secondo Fabrizio Barca è «il copione della destra»).
Ma, a parte l’ipotesi pop di un capo dello Stato regista, scrittore, editorialista, nonché ex segretario di partito, da destra, nonostante tutti i suoi sforzi, chi lo voterebbe? Studia da presidente Paolo Gentiloni, ex commissario europeo, oggi in una task force Onu sul debito dei paesi in via di sviluppo, incarico impalpabile perfetto per un papabile.
I «riformisti» del Pd lo invocano come federatore del centrosinistra, vista palazzo Chigi, ma lui li tiene a distanza: i Cinque stelle non lo vogliono vedere neanche dipinto. In caso di larghe intese con Forza Italia si vedrà. Ma un domani, piuttosto che regalare il Colle a un dipendente di Meloni, Conte si potrebbe convincere su lui?
Su Draghi non contate Conte
Difficile. Comunque per Conte meglio Gentiloni che Mario Draghi, che alla fine è il non-destro (ma non ha mai voluto dire chi vota, vezzo da quirinabile) che una parte della destra potrebbe bere, come un amaro calice. Ma Conte no: non gli perdona di averlo disarcionato nel 2021. Comunque i navigatori di lungo corso del Pd sanno che del presidente M5s non c’è da fidarsi: nel 2022 ha provato il blitz su Belloni con Lega e FdI, pur di essere considerato un regista scaltro.
Non va fatto sentire isolato, né snobbato: quando Dario Franceschini ha proposto per le politiche di «correre divisi, colpire uniti», aveva in mente anche la necessità di tenerlo arpionato a un accordone per il Quirinale. A cui non può sperare più proprio Belloni, una delle poche papabili donne: si è bruciata sia a sinistra (il Pd non ha apprezzato la collaborazione a vote supina con Meloni) sia con i sovranistia: Meloni la stima, ma quando ha dovuto scegliere tra lei e la coppia Tajani-Mantovano, non ha avuto dubbi su chi scaricare.
Se poi a vincere sarà la destra, dal Pd si dice che «dobbiamo lavorare da subito su un nome di Forza Italia, un moderato, per tagliare fuori FdI», ci viene spiegato. Ma in quel caso si romperebbe la maggioranza di governo. E si tornerebbe al voto. Difficile. È la ragione per cui nel 2022 non fu eletto Draghi: l’esecutivo non gli sarebbe sopravvissuto. Allora entrò in scena «la saggezza del parlamento», come l’allora segretario Pd Enrico Letta definì quel movimento di parlamentari che una chiama dopo l’altra fecero lievitare i voti di Mattarella: era l’unica strada per non sfasciare la maggioranza Draghi, che poi però si sfasciò lo stesso. «Sono stato fra i primi a cominciarlo a votare nelle prime chiame, anche quando il Pd indicava scheda bianca», racconta Stefano Ceccanti, «Che non sia divisivo è la prima “dote” che deve avere un candidato al Colle».
Stavolta a non disunirsi dovrà essere tutto il centrosinistra. Se non vuole perdere, come diceva Evangelisti, quella cosa lì che sta dietro: che è la parte, le terga, per significare il tutto.
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