Alla sesta chiama arriva un segnale, chiarissimo. Sergio Mattarella vola a quota 336 voti. I Cinque stelle si sono abbandonati in massa a segnare sulla scheda il nome del presidente in carica, come mettessero la firma sulla liberazione da un incubo. Mattarella aveva già preso 125 e 166 voti, per lo più grillini, crescendo sempre. Alla quinta chiama, quella che boccia senza appello la presidente del senato Maria Elisabetta Casellati, i giallorossi non partecipano.

Ma anche in quel caso Mattarella prende ben 47 voti: lo votano alcuni ex Cinque stelle ma anche una ventina di forzisti. Ma alla sesta, quota 336 è anche un po’ troppo: segno dell’entusiasmo del parlamento. Dai vertici Pd arriva un cauto via libera a chi vuole votare il capo dello stato anziché scheda bianca (l’indicazione ufficiale). L’idea è quella di dare un segnale, ma senza far diventare il bis del mandato una “proposta” di parte. Senza esagerare, dunque.

Ma la direzione che indicano i grandi elettori è netta. In un capannello di Leu quattro deputati parlano fitto fitto: «De Nicola era rimasto deluso dal numero di voti e Saragat disse “Proclamiamolo e poi cosa può fare?”». Si scherza, ma il problema non è banale: non si può eleggere Mattarella a sua insaputa. Ma come fargli arrivare il “messaggio”, lui che in questi giorni ha fatto esibire sui social i suoi molteplici traslochi? «Ma leggerà i giornali», si scherza di nuovo.

Sul presidente uscente sarebbe caduto il «veto» di Salvini: così sembra, almeno, durante la conferenza stampa di presentazione del voto su Casellati, quando dice che il capo dello stato «ha fatto un buon lavoro». È il primo complimento all’inquilino del Quirinale, dai tempi di «presidente dei migranti», «cattocomunista», «amico della Bindi». Tutto sembra portare al bis. Persino Umberto Bossi, mentre attraversa il Transatlantico sulla sedia a rotelle, spiega che ora «Salvini farà quello che gli dice Berlusconi» e alla parola «bis» annuisce con forza.

Movimento “dal basso”

Il costituzionalista Stefano Ceccanti, che del bis di Mattarella ha fatto una missione, esulta: «Mentre molti parlano, il parlamento vota con un movimento reale dal basso: ai circa voti di stasera vanno aggiunti almeno 35 dei 46 di stamani provenienti dal centrodestra che non hanno partecipato al voto stasera, totale 370. Annotare e tenere conto».

Quel “molti parlano” è una neanche troppo vaga allusione alle trattative che nel frattempo sono in corso. A quell’ora, siamo al tardo pomeriggio, Enrico Letta e Giuseppe Conte stanno incontrando Matteo Salvini. Circolano voci incontrollabili, le proposte per la rosa «condivisa» sarebbero quelle che ricicciano sempre: Pier Ferdinando Casini, Giuliano Amato, Marta Cartabia, Elisabetta Belloni. E naturalmente Draghi.

Ma le cose non stanno davvero così. Su Casini continua l’attivismo di Matteo Renzi, ma Salvini ha spiegato che i suoi non lo votano. Anche molti Cinque stelle storcono il naso, come del resto su Amato, che anche Salvini esclude. Cartabia è il nome che il Pd aggiunge quando Conte insiste su Belloni: che è la presidente del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, nominata di recente proprio da Draghi. Conte e Salvini all’unisono davanti ai giornalisti annunciano la scelta di una donna.

Qui è Renzi a stoppare, con una nota: «Che il capo dei servizi segreti in carica diventi presidente della Repubblica è inaccettabile. Si tratta di una deriva senza precedenti. Non voterò Elisabetta Belloni. Che è una mia amica. Ma dai servizi segreti non si va al Quirinale: chi non lo capisce non ha cultura istituzionale». Si unisce Leu.

Letta, come da costume di questi giorni, parla pochissimo. Ma “fonti del Nazareno” spiegano che va bene finalmente il confronto «dopo il fallimento del muro contro muro voluto dal centrodestra», tra le ipotesi in discussione ci sono «anche candidature femminili di assoluto valore. Ma ci vuole serietà, la cosa peggiore è continuare col metodo di questi giorni che consiste nel bruciare con improvvide fughe in avanti ogni possibilità di intesa. Per noi rimane fondamentale preservare l’unità della maggioranza di governo».

Se Conte parla di un nome di donna mentre i suoi votano in massa Mattarella, Letta non fa finta di niente: «Invitiamo tutti a prendere atto della spinta che da due giorni e in modo trasversale in Parlamento viene a favore della riconferma del presidente Mattarella».

Nel pomeriggio Salvini si è visto con il premier. Nella serata si tratta ad oltranza, appuntamento a stamattina all’alba, prima della chiama delle 9.30. E se si tratta è perché nel pomeriggio di ieri per il leader leghista è venuto giù tutto.

Alla quinta chiama gli è arrivata sberla politica, sonora e definitiva: gli scarsi 482 voti per la presidente della senato Maria Elisabetta Casellati, quei 70 mancanti che in realtà sono quasi cento («sono i nostri 101» sibilano inferociti da Fratelli d’Italia) perché una ventina di ex M5s hanno votato la presidente, e una ventina di forzisti ha votato Mattarella), cambiano tutto.

Salvini ha perso la faccia, e ha reso plasticamente evidente che ha fallito come leader della coalizione e che il centrodestra non ha i voti per eleggere il presidente; esce ammaccatissima Casellati, lei che a tutti i costi ha voluto misurarsi al voto e che passa tutta la chiama a mandare messaggini al telefono, facendo alla fine irritare anche il presidente della camera che gli è accanto Roberto Fico. Fdi accusa gli alleati di inaffidabilità: «Noi siamo stati granitici», sentenzia Giorgia Meloni.

Spezzare l’asse gialloverde

Ma gli errori di Salvini non basterebbero. Circola un messaggio di uno stretto collaboratore di Casellati che assicura 70 voti M5s: basterebbero a eleggerla. Un patto segreto gialloverde. E qui entra in campo l’accorta regia di Enrico Letta.

Quando in mattinata Salvini chiede di incontrare i vertici giallorossi, il segretario ha già riunito Giuseppe Conte e Roberto Speranza e li ha già convinti a non accettare, visto che la candidatura della presidente del senato è stata lanciata «a prescindere».

La riunione fra Letta, Conte e Speranza diventa un conclave di due ore: con tanto di «black out comunicativo». Succede che le destre iniziano a votare al buio, non sanno cosa Pd e M5s faranno in aula. Alla fine si astengono: per non indurre in tentazione i grandi elettori M5s. Alla fine la chiama si mette una pietra sull’ipotesi di un candidato di destra.

Letta evita toni trionfali ma è soddisfatto: «Abbiamo seguito il nostro schema sin da dicembre, con il nostro 12 per cento siamo riusciti a sventare la spallata delle destre e a condizionare la scelta del capo dello stato». Si tratta ad oltranza. Oggi, assicurano tutti, la fumata bianca.

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