È stata un’altra lunga giornata nel centrodestra: iniziata con una riunione alle 8.30 del mattino e conclusa con un’altra in serata, nel mezzo sono ritornati e poi esclusi di nuovo i nomi di Franco Frattini e Antonio Tajani. Nella confusione generale di notizie che si rincorrono e vengono smentite, l’esito è quello di aver consolidato solo una certezza:in quinta votazione per eleggere il presidente della Repubblica si scriverà un nome unitario sulla scheda, anche senza la certezza di eleggerlo. Quale sia questo nome ancora è incerto. 

Intanto, però, il logoramento interno sta iniziando a farsi sentire e questi due giorni hanno fatto riemergere il dualismo tra il leader della Lega, Matteo Salvini, e della presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Un deputato che, dal terzo polo di Forza Italia, conosce bene le dinamiche di coalizione definisce lo stato attuale come quello di un «dualismo a bassa intensità», tipico «delle coalizioni dinamiche, che devono continuamente ricomporsi». 

Il rischio, però, è che questa gestione dinamica produca gli stessi effetti che ha provocato nella scelta dei candidati alle amministrative di Roma e Milano. Ovvero che la tensione tra i due leader, attenti più a depotenziarsi a vicenda in una logica interna più che a trovare il miglior candidato, produca un nome di compromesso che poi non permette di vincere. Così come è successo a Roma, con Enrico Michetti e a Milano con Luca Bernardo qualche mese fa.

Anche alle amministrative il centrodestra si presentava con una maggioranza relativa sulla carta che poteva assicurare la vittoria, ma la scelta dei candidati secondo un minimo comune denominatore al ribasso ha permesso la vittoria del centrosinistra.

Anche in quarta votazione, la scelta dell’astensione non è stata facilmente raggiunta. Matteo Salvini ha dovuto sforzarsi di imporla, mentre Meloni era fortemente contraria e spingeva per potersi permettere di nuovo le mani libere e far votare un suo nuovo candidato di bandiera, come con Guido Crosetto il giorno prima.

Invece, il leghista è riuscito a convincerla della bontà dell’operazione astensionistica: «Solo così possiamo contarci davvero», avrebbe spiegato. 

La scelta dell’astensione

In realtà la chiave di lettura per capire l’astensione al posto della scheda bianca è duplice. Come spiega un deputato leghista, «l’astensione ha permesso di contare il pacchetto di voti di centrodestra, senza inquinarlo con le schede bianche altrui». In questo modo, in quinta votazione il centrodestra parte da 441 voti sicuri di cui poter disporre: appena 63 sotto il quorum dei 505. «Il segnale della giornata è la grande compattezza del centrodestra», ha detto anche il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani.

E’ anche vero, però, che in questo modo Salvini ha evitato il rischio di un congresso coperto sulla leadership: in terza votazione la Lega aveva dato mandato di votare bianca, ma nel segreto dell’urna un pacchetto di voti leghisti sarebbe confluito su Crosetto, altri 20 invece sul nome di Giancarlo Giorgetti. Una sbavatura che non poteva essere ripetuta anche in quarta votazione, col rischio di aprire un fronte interno al centrodestra. Eppure, la richiesta di astensione è stata accettata con una contropartita: gli alleati hanno dato mandato a Salvini di individuare un nome da votare alla quinta chiama, stanchi dello zig zag tra vertici, controvertici e telefonate con Enrico Letta e  Giuseppe Conte.

Il Quirinale si sta rivelando sempre più un test sulla tenuta anche dei nervi della coalizione di centrodestra. Nessuno mette apertamente in discussione la sua solidità, ma soprattutto da FdI c’è la volontà di tenere Salvini sotto pressione. A non essere piaciuta, sarebbe stata la velocità con cui ha accettato di archiviare i «tre nomi di alto profilo» lanciati nei giorni scorsi. Proprio da questo sarebbe scaturita la volontà di Meloni di lanciare nel mucchio la candidatura di Crosetto: abbastanza innocua da non impensierire davvero la coalizione, ma comunque un segnale chiaro che la pazienza si sta esaurendo.

Ad alimentare il dualismo tra leader c’è anche la differente prospettiva con cui guardano al futuro: per Salvini, dalla maggioranza di governo per cui è essenziale individuare un capo dello Stato che non metta in discussione l’esecutivo; per Meloni, dall’opposizione, per cui il vero obiettivo è liberare palazzo Chigi e andare a elezioni anticipate chiunque vada al Colle. Proprio in questa distanza si inserisce l’ostruzionismo di Enrico Letta a qualsiasi nome di centrodestra fino ad ora proposto. Chi fa parte del governo per il centrodestra, infatti, assicura che Salvini tiene ben presente che «bisogna evitare la catastrofe del governo, che sarebbe percepita malissimo sul pinao internazionale e creerebbe una sorta di vortice che inghiottirebbe i fondi per il Recovery».

La pressione, quindi, è tutta su Salvini. Con il rischio che, forzando la mano sul Quirinale per dare prova di leadership a FdI, finisca con il sostenere un candidato non all’altezza. Col risultato di non farlo eleggere e restituire l’iniziativa al centrosinistra o aprire la strada a Mario Draghi: la prima scelta di Meloni in tempi non sospetti.

 

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