Oggi si svolge il vertice di centrodestra per sciogliere la riserva sul nome da sostenere per il Colle. All’apparenza, l’esito è scontato: Silvio Berlusconi è lanciato e convinto di poterserla giocare. Gli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni, insieme ai centristi di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, invece, molto meno.

Per questo esistono due livelli di confronto, uno pubblico e uno nascosto. Quello pubblico è fatto di dichiarazioni in favore del Cavaliere: molto calorose da parte dei vertici di Forza Italia, piene di sottili distinguo quelle dei rappresentanti degli altri partiti. Da ultimo anche Salvini ha ribadito che «il centrodestra compatto e convinto nel sostegno a Berlusconi, non si accettano veti ideologici da parte della sinistra». Formalmente, infatti, nessuno nel centrodestra può permettersi lo sgarbo di esternare i dubbi sulla candidatura del vecchio leader.

LaPresse

Da lui, però, ora si attendono risposte. Due in particolare: se ha davvero intenzione di chiedere al centrodestra di sostenerlo nella scalata e, soprattutto, quali assicurazioni ha di poter ottenere i cento voti che mancano per eleggerlo a maggioranza assoluta. Il Cavaliere è convinto, telefona da giorni a tutto campo a parlamentari di ogni schieramento politico ed è rassicurato dal fatto che nei giorni non è emersa un’altra candidatura autorevole – al netto di Mario Draghi e Sergio Mattarella - tale da metterlo in difficoltà.

Il livello sotterraneo, invece, si muove in tutt’altra direzione. Salvini sente tutto il peso di dover essere il regista dell’operazione Colle e sa che, se sbaglia questa mossa, il rischio è l'implosione del centrodestra e rischi anche per l’esecutivo. Per tenerlo insieme, infatti, l’unica garanzia possibile è di eleggere un presidente condiviso. Quindi, non Berlusconi come ripetono da giorni sia il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte che il segretario del Pd, Enrico Letta.

Dunque le strade davanti a Salvini sono due. La prima e meno dolorosa è che Berlusconi capisca da solo che i voti per eleggerlo non ci sono e, davanti al rischio flop in aula, faccia il passo indietro. La seconda, più dolorosa, è quella di convincerlo ad accettare di venire votato nelle prime tre chiame e metterlo davanti all’evidenza.

Non a caso, Salvini ha sì confermato l’endorsement al Cavaliere se il centrodestra deciderà di candidarlo, ma nello stesso tempo ha anche ribadito che la Lega rimarrà al governo in ogni caso e che l’esecutivo attuale deve andare avanti. Proprio questo secondo passaggio è stato colto da Letta, che sta aspettando la Lega al varco e può permettersi di non dover fare lui la prima mossa.

Tanto da aver rinviato la riunione del centrosinistra, in attesa degli esiti di quello di villa Grande. «Noi vogliamo dialogare, ma abbiamo già detto che il dialogo deve avvenire su un nome condiviso, di una personalità istituzionale, non di un capo partito», ha detto il segretario del Pd, che ha però aggiunto di trovare «che in queste ore ci sia qualche elemento di dialogo positivo», riferendosi alle garanzie di tenuta dell’esecutivo.

Il tempo però sta terminando e il voto del 24 gennaio si avvicina: Salvini sa di non poter continuare ancora a lungo con il minuetto.

A mettere pressione su Salvini pensa anche Matteo Renzi, che sa di avere voti da offrire: «Il primo schema è un presidente eletto nell'ambito del centrodestra e ha una sua coerenza, hanno la maggioranza relativa. Se sono bravi e trovano un nome che va bene anche agli altri hanno vinto». Altrimenti, invece, rischiano di perdere tutto.

Fonti del centrodestra sono scettiche sul fatto che il vertice di oggi sia davvero risolutivo, ma l’obiettivo di Salvini e Meloni è di riportare Berlusconi con i piedi per terra. È lui l’ostacolo per iniziare davvero le trattative: non quelle telefoniche in cerca di voti ma quelle tra forze politiche. Solo poi si sbloccherà la situazione e Salvini potrà prendere l’iniziativa da vero leader del centrodestra e provare a costruire una candidatura istituzionale, fermo su un assunto: il governo deve proseguire la sua marcia. Solo così si assicurano gli equilibri parlamentari dei tanti grandi elettori impauriti dall’ipotesi del voto.

Il caso Sicilia

LaPresse

Che nel centrodestra la situazione sia sempre più tesa anche tra i singoli partiti, lo dimostra quanto successo in Sicilia nella nomina dei delegati al Quirinale.

Nel voto di due giorni fa il governatore Nello Musumeci è stato eletto sì come da prassi, ma nel voto a scrutinio segreto gli sono mancati ben sette voti della sua maggioranza. E lui ha tratto le immediate conseguenze con un video su Facebook in cui annunciava l’azzeramento della giunta e di aver subito pressioni indicibili dai partiti che lo sostengono.

Dopo la notte di scontro, ieri una riunione di giunta lo avrebbe convinto a congelare ogni mossa almeno fino all'approvazione dell'esercizio provvisorio. Tanto è bastato, però, perchè si siano alzate le richieste di dimissioni e il commissariamento del governo dell’isola. Non certo un buon segnale per il centrodestra, considerando l’importanza strategica dal punto di vista politico di quella regione, che rischia di mostrare per prima le divisioni tra le anime dell’alleanza.

A tentare di riportare la calma è stato il Gianfranco Miccichè, che ha ridimensionato l’accaduto a una questione tutta locale di mancato dialogo tra il presidente Musumeci e le forze politiche. «Se lui pensa di fare tutto da solo ancora una volta, deve sapere che nessuno degli assessori di Forza Italia potrà essere riconfermato se non ci sono pure gli altri». Tradotto: è meglio che il governatore torni sui suoi passi, se non vuole ritrovarsi senza maggioranza.

La tensione potrebbe calare nelle prossime ore, ma il segnale d’allarme arriva fino a Roma. Che ci sia fibrillazione nell’aria è evidente, come anche che la situazione possa facilmente sfuggire di mano al primo passo falso, tra franchi tiratori e rischio di impasse con lunghe votazioni andate a vuoto. E, se così fosse, si rischia di tornare alla casella di partenza: davanti alla debolezza della politica, l’unica strada è che tutti i partiti chiedano a Sergio Mattarella un bis che raffreddi la situazione. Salvini proprio ieri ha ribadito il suo no al bis. Nel Pd, che ha un nutrito fronte pro rielezione, ci sperano in molti. Quindi si gioca d’attesa, sperando che la tensione faccia esplodere le contraddizioni del centrodestra.

© Riproduzione riservata