Se il prossimo presidente della Repubblica non fosse eletto da tutti, almeno da tutte le forze che sostengono Mario Draghi, la legislatura cadrebbe.

Il segretario Pd Enrico Letta ha rotto la consegna del silenzio sul Colle e martedì sera, ospite di Carta Bianca su Rai 3, si è incaricato di dire ad alta voce una constatazione di realpolitik: quella per l’inquilino del Colle «sarà una elezione a larga maggioranza» perché «se così non fosse il governo cadrebbe immediatamente».

È un passo in più rispetto all’auspicio che Mario Draghi resti a palazzo Chigi espresso da Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e, da ultimo, da Carlo Calenda. Il leader Pd ha unito i puntini da un palazzo all’altro: se la maggioranza di governo dovesse dividersi sul Quirinale, l’esecutivo non starebbe più in piedi. Anche se Draghi restasse al suo posto. Ci sarebbe solo il voto anticipato, in sostanza.

Quella di Letta è una mossa a effetto perché la parola «voto» nelle camere produce un fremito in tutte le forze politiche. Il segretario Pd, che pure ricorda spesso di guidare un partito che in parlamento pesa «solo per il 12 per cento», sente ora di poter manovrare da una posizione di forza: dopo la vittoria alle amministrative, le stelle sembrano insolitamente allinearsi per i dem.

Molti sondaggi danno il Pd primo partito, dopo essere rimasto a lungo dietro Fratelli d’Italia e Lega. Il segretario ostenta distacco e disincanto rispetto a questi numeri.

Ma è la prima volta che succede al Pd dalle elezioni del 2018, e dopo la scissione di Italia viva, all’indomani della nascita del governo Conte II. Ci sarebbe anche il fatto che gli italiani percepiscono il Pd come il partito più vicino a Draghi. O circa: secondo YouTrend per il 62 per cento degli intervistati i democratici sono il partito della maggioranza che incide di più sulle decisioni del governo (seguono Lega con il 43 per cento, il M5s con il 40, Forza Italia con il 37, Italia viva con il 28 e Leu con il 15).

Tutto questo momento di grazia porta a un fatto che al Nazareno viene detto solo a voce bassa o bassissima: il Pd, se non preferisce il voto anticipato, almeno non è spaventato dall’eventualità di una precipitazione verso la fine della legislatura. Ma se i parlamentari, e Letta pensa soprattutto ai suoi, vogliono evitare il voto – è la conseguenza del ragionamento – non devono lasciarsi convincere dalle avventure. E dagli avventurieri. Un esempio a caso: Matteo Renzi. Anche questo Letta non lo dice, ma ormai da settimane il leader di Italia viva in parlamento dà stabilmente man forte alle destre.

È successo la settimana scorsa al Senato sul decreto capienze, è successo martedì in commissione alla Camera sul provvedimento che regola le lobby. L’ex segretario Pd è in fase di grandi manovre.

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Se una parte dei dem, anche limitatissima, dovesse seguirlo sulla strada di un nome divisivo per il Colle, l’effetto collaterale inevitabile sarebbe la caduta del governo.

Quindi, ed è l’ultima conseguenza, occhio alle sirene dell’ex Cavaliere. «Non credo che la candidatura di Silvio Berlusconi sia in grado di ottenere una larga maggioranza», ha detto Letta su Rai 3. E ieri a Radio Capital il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha rincarato: «Penso che il Pd non voterà Berlusconi. Punto».

Chi nel segreto dell’urna volesse fare diversamente, magari convinto da Renzi e dalle rassicurazioni che Berlusconi dà ai parlamentari, rischierebbe l’eterogenesi dei fini.

 

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