Con la candidatura ufficiosa di Elisabetta Belloni al Quirinale l’istituto Massimo, la scuola paritaria dei gesuiti romani, dopo palazzo Chigi, può portate un altro illustre studente ai vertici delle istituzioni italiane.

Belloni è la prima donna a dirigere il Dipartimento delle informazioni di sicurezza (Dis), la struttura che vigila sui nostri servizi segreti. Ed è stata la prima donna a guidare l’Unità di crisi e della Cooperazione allo sviluppo, a diventare capo di gabinetto al ministero degli Esteri e segretaria generale della Farnesina.

Ma soprattutto ha frequentato, esattamente come il “salvator mundi” Mario Draghi, l’istituto fondato dalla Compagnia di Gesù che, come si legge sul sito internet della scola, «offre una formazione articolata secondo il Paradigma pedagogico ignaziano che prende il nome dal suo fondatore, Ignazio di Loyola». Anche per questo Belloni piace all’inner circle vaticano del gesuita papa Bergoglio.

Il suo, avrebbe detto il padre gesuita e santo cileno Alberto Hurtado, è «un cristianesimo tutto fuoco, tutta vita, che comprende ogni attività». È questo l’insegnamento che hanno ricevuto – e continuano a ricevere – gli studenti del Massimo.

Come puntualizza padre Giuseppe La Manna, rettore dal 2014: «Tutti loro hanno saputo mettere a disposizione della comunità la ricchezza umana e spirituale che li contraddistingue. Vedere il modo con cui il presidente Draghi si è coinvolto in un periodo non facile per il nostro paese, mostra la sensibilità alla comunità alla quale appartiene. Alla base di tutto c’è il discernimento, cioè riconoscere che il bene personale coincide sempre con il bene comune. I gesuiti lo hanno saputo fare da quando hanno cominciato a educare: il loro esempio ci dimostra che dai frutti si riconosce l’albero».

La prima donna

Nei decenni, l’istituto Massimo ha formato politici e importanti uomini d’impresa. Tra i nomi più noti tra gli ex alunni, Luca Cordero di Montezemolo e Luigi Abete, entrambi ex presidenti di Confindustria. Ma anche il diplomatico Staffan de Mistura, padre di uno dei più importanti centri di formazione per i dirigenti delle Nazioni unite, o ancora l’ex capo dello polizia e presidente di Leonardo Gianni de Gennaro e l’ex commissario dell’Enea, Giovanni Lelli.

Prima studentessa a conseguire il diploma nella loro stessa scuola, Elisabetta Belloni ha sovvertito un sistema che, seppure percepito progressista, era ancora strutturalmente maschile.

Ricorda quegli anni l’ex “massimino” Francesco Rutelli: «A 16 anni, presi la parola a un incontro tra genitori e vertici della scuola, al tempo solo maschile, perorando la causa dell’apertura alle ragazze. Non ero autorizzato, ebbi molti consensi tra i presenti, ma l’atto di insubordinazione fu molto sgradito; mi valse una limatura verso il basso dei voti in pagella. Le ragazze, però, furono ammesse l’anno successivo».

Oggi padre La Manna sottolinea che la diversità è un fiore all’occhiello dell’istituto: «Ciascuno in questa scuola è diverso e ha i suoi talenti ed è bene che li conosca e li faccia crescere secondo uno stile unico. È fondamentale conoscersi: l’unicità di ciascuno è mettere a frutto questa dote, facendo scelte e individuando ciò che è meglio per sé stessi».

A scuola di discrezione

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Anche oggi, il Massimo non condivide nulla dei campus scolastici coevi. In quest’istituto non c’è spazio per convenevoli e formalità, al punto che la sede all’Eur, rifondata negli anni Sessanta dismettendo il sontuoso palazzo umbertino vicino alla stazione Termini, è tuttora percepita come un nucleo in costante divenire, con ballatoi sopra elevati lontani dalla rigidità degli scaloni marmorei delle scuole del centro.

Oggi, entrando nell’atrio dopo aver percorso il viale che unisce il Massimo alla basilica razionalista dei santi Pietro e Paolo, solo due teche climatizzate con i globi realizzati da Carlo Benci per papa Clemente X suggeriscono una fastosità desueta.

Persino le volte imponenti della cappella cancellano i legami con una visione centripeta del mondo per fare posto a quella che l’architetto Vincenzo Passarelli definì «anonimità funzionale».

Quando fu costruita la scuola rifletteva il fermento del mondo che si dilatava alla vigilia dei Giochi olimpici del 1960, paideia della chiesa petrina e paolina, salda nella fede eppure globale.

Il trasferimento dell’istituto Massimo all’Eur coincide con la “chiesa distensiva” inaugurata dai papi Giovanni XXIII e Paolo VI, rinsaldata dal Concilio vaticano II. Gli archivi della scuola registrano in media 1.600 iscrizioni annuali nel decennio 1968 –1978, quando viene istituito un comitato genitori-alunni per la gestione attiva dell’istituto. Una libertà per nulla sinonimo di quella «facoltà di nuocere, libertà uguale delitto» che Edoardo Albinati ritrae mirabilmente nel romanzo La scuola cattolica. Quando dal san Leone Magno usciranno i tre misogini assassini del massacro del Circeo, il Massimo aveva già aperto le sue porte alle studentesse.

Se oltreoceano, malgrado il progressismo del presidente cattolico John Fitzgerald Kennedy, istituzioni gesuitiche per eccellenza come la Georgetown University erano percepite come espressione di un establishment da ribaltare – non a caso, il regista del film L’esorcista W. Friedkin sceglierà l’ateneo quale sfondo per le contestazioni studentesche – il Massimo si è sempre sgravato dell’etichetta politica, pur sfornando politici.

Hogwarts delle eccellenze

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Chi porta con sé un ricordo ambivalente del Massimo è Giancarlo Magalli, coetaneo di Draghi e Montezemolo. «Eravamo la classe del 1947 – sottolinea – Ricordo con piacere gli anni delle medie, il Massimo era in piazza dei Cinquecento e per me era comodo raggiungerlo col tram. Poi c’è stato il trasferimento all’Eur, poi non ho avuto un buon rapporto con il preside di allora, Franco Rozzi. Mi puniva continuamente e, alla fine del primo liceo, mi ha fatto bocciare obbligandomi a cambiare scuola».

Ciononostante, mantiene la stima di alcuni suoi insegnanti: «Ho voluto bene a molti professori. Negli anni del ginnasio volevo fare il biologo grazie alla passione di padre Zanandrea, un gesuita che aveva scoperto sulle rive del Po una lampreda non ancora classificata, che oggi reca il suo nome. Questo suo amore per la biologia era pura passione».

Perché, allora, ancora oggi l’educazione dei gesuiti è vista con sospetto? «Non ci inventiamo nulla, è tipico dei gesuiti capire le possibilità che ciascuno ha per esprimere la propria unicità», dice il rettore.

Un filo rosso nella pedagogia ignaziana, peculiare in politica, però c’è: il discernimento. «Nella nostra vita operiamo sempre delle scelte. Ma come avvengono? A volte in automatico, altre tengono conto di fattori che entrano nel contesto. Chiediamo ai nostri alunni di fermarsi e aggiungere consapevolezza. E poi lasciamo spazio ai desideri a cui aspirano. Solo in questo modo, la probabilità di potersi realizzare è alta. Discernere, quindi, significa anche riconoscere i limiti che si vivono. È un segno di grande maturità».

E sull’accusa di formare le élite, il rettore puntualizza: «Quando parliamo di eccellenze, ci riferiamo a persone che svolgono in modo eccellente il loro lavoro, che non significa per forza essere dirigente di una grossa azienda. Il nostro compito non è formare élite, ma uomini e donne capaci di intercettare il loro bene e il bene della comunità a cui appartengono. Per di più, siamo una realtà solidale e, come tale, riconosciamo sempre che viene prima la persona, poi l’economia».

Apertura intellettuale

Ricordando i suoi anni all’istituto Massimo, l’ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli, ne riconosce il merito: «Ora che mi occupo di cinema, ricordo le lezioni visionarie di educazione cinematografica di padre Virgilio Fantuzzi. Il valore dell’insegnamento dei gesuiti sta nell’apertura intellettuale, nello stimolo e nell’aspettativa esigente e nell’opposizione a ogni paternalismo verso gli studenti».

Gli fa eco il rettore La Manna: «Il paradigma pedagogico ignaziano è qualcosa di pubblico, codificato in documenti. La nostra sfida è accompagnare i ragazzi in una crescita non a compartimenti stagni, ma secondo un percorso di sviluppo umano, culturale e spirituale, la pedagogia ignaziana ha una spinta fortemente sociale».

Inclinazioni che Belloni ha reso cifra distintiva del suo operato, come nell’appello alla de-escalation dei conflitti armati pronunciato a New York nel 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 2018, o nelle parole di ammirazione spese dopo l’uccisione dell’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio: «Luca ha interpretato la sua professione nella convinzione di potere contribuire alla costruzione di un mondo migliore, dove lealtà e merito vengono messi al servizio di valori e principi non negoziabili, in primo luogo la dignità della persona».

L’eredità sociale del Massimo è oggi parte della formazione dei massimini, che hanno l’obbligo di svolgere una settimana di servizio nel sociale o in iniziative solidali, come spiega il rettore: «Alcuni partecipano alle attività dell’Arsenale della pace di Torino, altri ancora affiancano le cooperative di Libera che lavorano nei terreni di Sessa Aurunca, confiscati alla camorra».

Nel 2021, nonostante i disagi dovuti alla pandemia, gli alunni hanno lavorato a progetti sulla sostenibilità sociale, benedetti anche da papa Francesco. «Lo abbiamo incontrato diverse volte, è molto informato sul lavoro che facciamo qui» spiega La Manna.

Era il 2016 quando Bergoglio esortava i massimini riuniti in piazza san Pietro a essere «giovani di orizzonti non chiusi, che non hanno paura». A giudicare dall’entusiasmo degli alunni, di oggi come di ieri, sembra stia qui il segreto di un centro di formazione eccellente, che continua a formare oggi i perfetti leader di domani.

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