Il 14 dicembre del 2010 Gianfranco Fini non aveva dubbi. Il presidente della Camera aveva messo in discussione la leadership di Silvio Berlusconi ed era pronto a incassare il risultato: sfiducia in aula e tutti a casa.

Nelle ore che avevano preceduto il voto della Camera, però, il leader di Forza Italia aveva messo in campo Denis Verdini (e le sue inesauribili risorse politiche ma soprattutto economiche) e i sogni di Fini erano rimasti tali. A Montecitorio il governo Berlusconi avrebbe ottenuto una risicata vittoria, 314 sì e 311 no, e si sarebbe guadagnato qualche mese di vita in più.

Questo per dire che la politica non è sicuramente una scienza esatta ma una scienza esatta come la matematica può, a volte, aiutare a capire la politica. Così nell’elezione del nuovo presidente della Repubblica il primo punto da cui partire è sicuramente quello che riguarda i numeri.

I grandi elettori sono 1009. Per essere eletti nelle prime tre votazioni i candidati devono ottenere 672 voti, cioè i due terzi degli aventi diritto. Dalla quarta in poi basta arrivare a quota 505 (la maggioranza assoluta). 

Mario Draghi resta al momento il Candidato (con la “c” maiuscola) per la successione a Sergio Mattarella. E non a caso da tempo la stampa straniera, ma anche i partiti italiani, si interrogano su cosa sia meglio per il paese: palazzo Chigi o Quirinale?

La solitudine dei numeri primi

Nessuno però sembra porsi un’altra domanda: come sarebbe meglio che Mario Draghi diventasse capo dello stato? O rimanesse presidente del Consiglio?

Un po’ di numeri. Sandro Pertini, presidente della Repubblica tra il 1978 e il 1985, è stato eletto al sedicesimo scrutinio, votato da 832 grandi elettori su 1011.

Il suo successore, Francesco Cossiga (1985-1992), al primo scrutinio con 752 su 1011. Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), sedicesimo scrutinio, 672 su 1011. Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), primo scrutinio, 707 su 1010. Giorgio Napolitano (2006-2013), quarto scrutinio, 543 su 1009. Ancora Napolitano (2013-2015), sesto scrutinio, 738 su 1007. Infine Sergio Mattarella (2015-2022), quarto scrutinio, 665 su 1009.

Insomma, nella storia recente del paese, solo due presidenti sono stati eletti al quarto scrutinio. E per entrambi la reazione immediata delle forze politiche era stata quella di denunciarne il loro essere “di parte”. Cioè espressione di una coalizione, di una parte politica.

Il pallottoliere

Italian Premier Mario Draghi speaks at the 14th Ambassadors' Conference in Rome, Tuesday, Dec. 21, 2021. (AP Photo/Gregorio Borgia)

Ora Draghi, se veramente ha come obiettivo quello di diventare il successore di Mattarella, ha davanti a sé due possibilità (sintetizzate efficacemente dal sito Dagospia). La prima è quella di essere eletto nelle prime votazioni superando lo scoglio dei 700 voti (meglio se alla prima). Nessuno si sbilancia fino a dirlo pubblicamente ma basta guardare i movimenti dei partiti, tutti preoccupati di trovare un’alternativa per il Quirinale così da convincere il premier a rimanere a palazzo Chigi, quei voti non ci sono.

Senza contare che, come insegna Romano Prodi, il segreto dell’urna è terreno fertile per i franchi tiratori. A questo punto lo scenario più probabile è che si arrivi alla quarta votazione. E a questo punto diventa dirimente capire se e come Draghi supererà quota 505. L’essere eletto da “una parte” della sua maggioranza in contrapposizione a “un’altra” renderebbe particolarmente difficoltosa l’ascesa al Colle dell’ex presidente della Bce.

Se infatti l’obiettivo è quello di realizzare, come da citazione del ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, un «semipresidenzialismo di fatto», perché mai chi non ha contribuito a eleggere il presidente della Repubblica dovrebbe farsi imporre da quest’ultimo un presidente del Consiglio?

Certo la storia recente ci ha insegnato che, nonostante gli inizi polemici e burrascosi, alla fine la coabitazione tra Quirinale e Chigi è sempre possibile. Ma di sicuro, se non ci fosse un’elezione numericamente convincente alla prima votazione, la figura di “super Mario” rischierebbe di rimanere leggermente offuscata. E sarebbe sicuramente più complicato gestire le dinamiche parlamentari e quelle governative da capo dello stato. Lui stesso, poi, dovrebbe domandare perché continuare a guidare una maggioranza che nella partita più importante non è stato in grado di sostenerlo. 

La battaglia delle poltrone

Anche perché i numeri saranno così importanti i partiti si stanno dando parecchio da fare. Nella Giunta per le immunità del Senato restano “pendenti”, per ora, due seggi. Uno è quello che il centrodestra vorrebbe assegnare al patron della Lazio, Claudio Lotito (che dovrebbe prendere il posto del renziano, Vincenzo Carbone. L’altro è quello del senatore eletto all’estero e dichiarato decaduto, Adriano Cario, che dovrebbe essere sostituito dal democratico, Fabio Porta.

Sullo sfondo le elezioni suppletive che il 16 gennaio, nel collegio Roma I della Camera, dovranno eleggere colui/colei che prenderà il posto del neo sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Non si tratta di decisioni che, sulla carta, sembrano poter cambiare di molto gli equilibri degli schieramenti. Ma come insegna Fini un numero in più, o in meno, può fare la differenza tra un trionfo e una rovinosa disfatta.  

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