Sabato 29 gennaio alle 8 del mattino il segretario Pd Enrico Letta riunisce i suoi grandi elettori. Dice: «Assecondare la saggezza del parlamento è democrazia». Arriva un’ovazione, liberatoria, per Sergio Mattarella. Poi sale al gruppo dei Cinque stelle per un vertice con Giuseppe Conte e Roberto Speranza. Subito dopo viene convocato il primo vertice di tutti i leader di maggioranza al gruppo di Forza Italia. Oltre ai giallorossi ci sono Matteo Renzi, Matteo Salvini, Antonio Tajani e i centristi.

È il conclave che ha chiesto il segretario Pd il 26 gennaio, in cui i leader della maggioranza si chiudono “a pane e acqua” fino a all’accordo sul nome del prossimo presidente della Repubblica? No. Non si «butta la chiave». Anzi, i partecipanti vanno e vengono. È qui che Renzi dice «Casini». Ma Letta se ne va. Dirà ai suoi: «Avete visto i voti per Mattarella? Un’onda. Se Renzi vuole lanciare Casini contro Mattarella, se ne assuma la responsabilità». La sera prima per il presidente sono arrivati 336 voti.

Svolta della destra, disastro Casellati

Torniamo indietro. Venerdì 28 è il giorno della quinta chiama. Il centrodestra tenta la spallata su Maria Elisabetta Casellati. Ma si schianta. La mattina Salvini chiede un incontro con i giallorossi alle 11. Vuole provare a convincere Conte a lasciare la libertà di coscienza ai Cinque stelle. Crede di sapere che da quella parte arriveranno voti. Casellati in persona ha contattato molti di loro. Altri sono stati sondati dai suoi collaboratori. Uno di loro invia a un collega un messaggio su WhatsApp: «Si lavora ad accordo. Dipende tutto da Conte. Se lei prende ora 440 voti e nel pomeriggio ritirano la scheda i 5s, è fatta». «Ora» significa alla prima chiama. Ma Salvini sa che Casellati non farà il pieno dei voti. Innanzitutto di Forza Italia.

La chiama inizia alle 11. I vertici giallorossi si riuniscono alle 9. Letta, Conte e Speranza. Un vero conclave, stavolta: il Pd fa partire un «black out informativo»: nessuno sa che cosa succede. Nessuno risponde neanche a Salvini. «Fonti dem» e «Fonti Nazareno» depistano cronisti fra «astensione, bianca o fantomatici “candidati alternativi”».

Alla prima chiama non risponde nessuno. Alle 11 e 36 un comunicato dei giallorossi annuncia a sorpresa «l’ingresso non votante». Fra alcuni grandi elettori di centrodestra – forzisti e centristi – ed ex M5s invece circola il «messaggio» di votare Mattarella. «Che si contino», dice Letta ai suoi: se arrivano tra i 40 e 50 voti sarà il segnale che anche da destra il bis del presidente è un’ipotesi concreta. Saranno 46. Casellati prende 382 voti, 71 meno di quelli sulla carta, 453. Salvini va in confusione, mentre il voto ancora è in corso il voto fa una conferenza stampa: «Mi viene in mente che Conte e Letta vogliano far saltare il governo, non noi». È il pomeriggio più pazzo del mondo, finisce a sera in un vertice fra Salvini, Letta, Conte.

A questo punto sul tavolo ci sono Mattarella, Draghi, Casini, Elisabetta Belloni, Paola Severino e Marta Cartabia. Letta spiega: «Da parte nostra non ci sono veti, tutti i profili sono buoni, ok di massima ma devo confrontarmi con i miei grandi elettori, la condizione è l’unità della maggioranza». Eppure le cose non stanno precisamente così, e il segretario del Pd lo sa: su Draghi c’è il no di tutti tranne che di Iv, Leu, centristi e Pd (che però è spaccato).

Su Casini c’è il veto di Salvini e di Conte; sono però veti superabili, e Renzi, grande sponsor di Casini, lo sa. Su Belloni c’è il veto di Iv, Di Maio, Leu e buona parte del Pd. Su Severino c’è il veto di Berlusconi, sondato al telefono dallo stesso Letta: inamovibile, «non se ne parla», gli ha detto. Su Cartabia c’è il veto di M5s e FI. In ballo di fatto sono solo Casini e Mattarella.

Fuga in avanti su Belloni

Ma a questo punto Salvini parla di «intesa su una donna». Seguito a ruota da Conte, che fa pubblicamente il nome di Belloni, la capa dei servizi segreti. Arriva il tweet di Grillo: «Benvenuta Signora Italia». Ma Renzi stoppa, a ruota arriva la rabbia del ministro Di Maio: «Indecoroso che sia stato buttato in pasto al dibattito pubblico un alto profilo come quello di Elisabetta Belloni. Senza un accordo condiviso». Letta se la prende con Conte per la «comunicazione». Esce una nota del Nazareno: «Niente fughe in avanti, guardare la saggezza del parlamento».

Dopo una riunione tesissima – al posto di Letta c’è Debora Serracchiani – esce una nota congiunta Pd-Leu-M5s: nessuna decisione è assunta, dice, «sul tavolo ci sono diverse candidature, con autorevoli personalità anche femminili» ma «è fondamentale che ci sia una larga condivisione». Ma Belloni non è più sul tavolo. Letta, da un divano di Montecitorio, parla ai cronisti: «Ho chiesto che domattina le forze della maggioranza si siedano a un tavolo». L’accordo su Mattarella è a un passo. Il ministri Pd cominciano a fare telefonate, dicono «Mattarella». Anche Dario Franceschini, che non ha mai nascosto nelle riunioni con Letta la sua preferenza per Casini.

Torniamo al «conclave» aperto. Quando Renzi avanza il nome di Casini, non c’è un veto del Pd sull’ex presidente della Camera che siede al senato con i voti dei dem. Ma c’è una consapevolezza: il no di Salvini, che però qualche giorno prima è stato possibilista con Renzi.

La teoria dei giochi

Vediamo le mosse di alcuni dei giocatori. Due di loro, Letta e Renzi, sembrano adottare un modello matematico di interazione dove i guadagni e le perdite si bilanciano. Letta ha tre carte principali: Draghi, Amato e Mattarella. Renzi due: Casini e Draghi. Lavora in asse con Letta fino quasi alla fine, bruciando tutti i nomi per puntare, all’ultima curva, su Casini.

Letta e Renzi si usano reciprocamente su Belloni: il secondo la boccia per arrivare a Casini, il primo usa il veto Iv per argomentare la mancata fumata bianca su di lei. Letta, appurato che su Draghi non c’è possibilità di convergenza da parte di Conte e Salvini, tenta la sponda con Meloni. Che però è concentrata a far sfracellare Salvini su una candidatura identitaria (sarà Casellati). In quelle ore due “fratelli d’Italia” di peso in Transatlantico ci spiegano: «Noi voteremmo Draghi, ma sta alla maggioranza fare il suo nome». Un nome che però non può essere fatto per il veto di Conte e Salvini.

Salvini e Conte entrano nella trattativa senza una strategia precisa. Il leghista prova a accreditarsi come chi ha i numeri per proporre il presidente e punta sui voti segreti M5s. Conte ha una sola strategia: è la formula «Ttd», significa «tutto tranne Draghi». Casini è l’unico vero presidente mancato.

L’onda Mattarella

Alla prima chiama per Mattarella arrivano 16 voti, 39 alla seconda, 125 alla terza, 166 alla quarta, 46 alla quinta (i giallorossi non votano), 336 alla sesta, 387 alla settima, ma qui siamo a sabato, l’accordo di maggioranza è quasi fatto.

Alle prime chiame lo votano M5s, Pd alla spicciolata, grandi elettori di tutte i gruppi. Fin qui c’è stato il silenzioso lavoro di persuasione di un pugno di deputati e senatori fra dem e M5s: il costituzionalista e deputato Stefano Ceccanti, Walter Verini (con la benedizione di Letta), i Giovani turchi del Pd di Matteo Orfini. Un occhio allenato li nota sempre presenti in Transatlantico nel corso di tutte le chiame. Alla sesta, quella dopo la caduta di Casellati, entrano in campo alcuni parlamentari di lunga esperienza. Fra loro Luigi Zanda e Emanuele Fiano. A questo giro saranno moltissimi i voti per Mattarella. Volendo, potrebbe già essere eletto. Ma il Pd controlla militarmente il voto: non devono essere “troppi”, non deve apparire una scelta “di parte”.

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