Il disegno di legge dell’onorevole Fabio Rampelli «per la tutela e la promozione della lingua italiana» - analoga a quella presentata nel 2018 «con l’intento di tutelare il patrimonio linguistico italiano» - può essere spiegato attraverso la difesa che ne ha fatto lo stesso Rampelli su Facebook nei giorni scorsi.

La difesa di Rampelli

Il parlamentare di Fratelli d’Italia parla, innanzitutto, di «difesa delle lingue madri dall’invasione dell’idioma anglo-americano, reso ancora più aggressivo dalla stagione globalista». Questa affermazione tradisce l’inclinazione della maggioranza a un certo vittimismo. Dal cibo al linguaggio, nella narrazione sovranista c’è sempre qualcuno che vorrebbe attentare all’italianità con l’imposizione di condotte dalle quali è necessario salvare il paese, anzi la nazione. Ma nessuno vuole obbligare all’uso di parole straniere, né a nutrirsi di grilli o carne coltivata, ad esempio, come qualche politico vuole indurre a ritenere. Di fatto, il comune utilizzo di termini di altre lingue - da computer a film a cocktail - compresi ormai da tutti e presenti nei vocabolari della lingua italiana, rientra nell’evoluzione di ogni idioma. L’espressione italiana equivalente potrebbe addirittura risultare incomprensibile.

Rampelli prosegue dicendo che «la lingua è il principio cardine della cultura di una nazione» e che serve «difendere i cittadini dalle distorsioni del mercato, con aziende internazionali che propinano contratti di lavoro, convenzioni, condizioni e pubblicità in lingua inglese». La lingua italiana è cultura, e per saperlo non serve che essa sia resa oggetto di una legge o addirittura “costituzionalizzata”, come proposto con un disegno di legge da un senatore di Fratelli d’Italia, il quale vuole “sacralizzarla” come «elemento costitutivo e identificante della comunità nazionale». Anche la Consulta ha riconosciuto che la Carta «conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l'italiano come unica lingua ufficiale» (sentenza n. 28/1982). Detto ciò, Rampelli mostra di avere uno strano concetto di distorsioni del mercato, reputando che esse siano prodotte dall’uso di parole straniere, e non invece, tra l’altro, da regolamentazioni inidonee o da insufficiente concorrenza. A quest’ultimo riguardo, il deputato di FdI dovrebbe sensibilizzare la propria parte politica circa gli impatti distorsivi della mancata messa a gara delle concessioni balneari, anziché usare risorse pubbliche in proposte di legge la cui utilità è dubbia.

L’incomprensibilità di norme e atti

Rampelli afferma ancora che «l’uso della lingua madre garantisce l’universalità della democrazia, la quale per definizione deve rendere accessibili leggi, diritti e opportunità a tutti i cittadini». Non si può che concordare sulla necessità di rendere comprensibili a tutti leggi e atti. Ma, più che sullo sporadico uso di termini stranieri, servirebbe concentrarsi su un’opera di semplificazione normativa, data la vigenza di disposizioni «estremamente articolate e complesse», «stratificate nel tempo in maniera poco coordinata e spesso conflittuale su diversi livelli amministrativi», circostanza stigmatizzata anche dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Nel 1988, la Corte Costituzionale (sentenza n. 364) affermò che una persona «può considerarsi colpevole solo ove la conoscenza della norma sia possibile», richiamando come esempio di impossibilità quello della «assoluta oscurità del testo legislativo». Ma l’oscurità continua troppo spesso a connotare leggi e gli atti amministrativi, nonostante circolari della Camera del 2001, del Senato e del presidente del Consiglio sulla formulazione di testi legislativi, una direttiva del Dipartimento della Funzione Pubblica sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi, nonché i successivi richiami del Comitato per la legislazione (2011) e della  Commissione parlamentare per la semplificazione (2014). Invece Rampelli si preoccupa dell’eventuale uso di parole in inglese, anziché dell’eccessiva lunghezza di articoli con un numero abnorme di commi, dei numerosi rinvii ad altri articoli e leggi, dell’uso di termini tipici del “burocratese” e del “politichese” o di linguaggi settoriali.

Cittadini, aziende e pubbliche amministrazioni

Rampelli si lamenta della disinformazione fatta sul suo disegno di legge da parte di chi lascerebbe intendere «che sarebbero multati i cittadini che useranno lingue straniere». Il deputato pare ignorare che la sua proposta riguarda anche i cittadini. Infatti, è previsto (art. 3 c. 2) che «per ogni manifestazione, conferenza o riunione pubblica», quindi anche tra privati, sia «obbligatorio l’utilizzo di strumenti di traduzione e di interpretariato, anche in forma scritta, che garantiscano la perfetta comprensione in lingua italiana». In altre parole, soggetti privati non potranno organizzare un incontro pubblico nella lingua che preferiscono, senza traduzione. Nemmeno le imprese private saranno libere di usare l’idioma più utile alle proprie esigenze. Infatti, la proposta dispone (art. 4, commi 2 e 3) che «le sigle e le denominazioni delle funzioni ricoperte nelle aziende (…) devono essere in lingua italiana», così come «i regolamenti interni delle imprese» nonché qualunque documento «la cui conoscenza è necessaria al dipendente per l’esecuzione del proprio lavoro». La norma rappresenta una ingerenza nell’organizzazione di soggetti privati, con buona pace della libertà di impresa sancita costituzionalmente (art. 41). Giorgia Meloni in Parlamento aveva detto che serviva «non disturbare chi vuole fare», riferendosi agli imprenditori, ma pare si vada in senso opposto. Ci si chiede, peraltro, come la norma potrebbe essere implementata in concreto, salvo ispezioni all’interno delle aziende. Un assurdo. E di certo si penalizzano gli studenti italiani, anch’essi privati cittadini, rispetto a colleghi che frequentano università in altri Stati, vietando nelle università italiane corsi in lingua straniera, a meno che non vi siano omologhi corsi in italiano (art. 6). Non proprio uno stimolo all’apprendimento di altre lingue, quindi all’apertura al mondo, da parte dei giovani.

Nella proposta di Rampelli si legge che chiunque ricopra cariche – tra l’altro - all’interno delle istituzioni italiane e della pubblica amministrazione è tenuto «alla conoscenza e alla padronanza scritta e orale della lingua italiana» (art. 4, c. 1). Premesso che nella pubblica amministrazione si entra per concorso, quindi tale conoscenza e padronanza è condizione per l’accesso, forse Rampelli si riferisce a colleghi parlamentari i quali, nelle dirette dei lavori di Camera e Senato, talora non dimostrano di averla. Più grave è il fatto che ciò si riflette nei testi di legge: secondo il Comitato per la legislazione, la poca chiarezza delle norme è imputabile anche al legislatore, vale a dire colui il quale «dovrebbe padroneggiare il linguaggio», e invece dimostra «scarsa conoscenza della propria lingua madre», con «errori sintattici», «forme verbali al singolare invece che al plurale, inesattezze lessicali» o «termini generici in luogo di quelli più appropriati». Altro che rischi derivanti dal non frequente uso di parole in inglese in testi di legge.

Rampelli afferma pure che la sua legge non limita la «la libertà di ogni persona nell’uso dei termini che desidera», e dunque sono infondate «critiche sull’uso del termine “underdog”» da parte di Giorgia Meloni. Ma Meloni in Parlamento è un'esponente istituzionale, quindi ricade nella legge. E Rampelli difende anche la denominazione di un’istituzione, il ministero del Made in Italy, in quanto «la penetrazione delle eccellenze italiane all’estero» - compito cui il ministero è preposto - «si ottiene più efficacemente con l’uso della lingua dominante, l’inglese». Dunque, Rampelli riconosce l’ormai ineludibile valenza di espressioni straniere, e ne giustifica l’uso per denominare un ministero, mentre le vieta ad altri soggetti. Parafrasando una nota espressione, ciò si potrebbe “tradurre” dicendo che tutti i destinatari delle norme sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri?

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