FdI e FI spingono per l’astensione. Landini: «Per Mattarella partecipare è democrazia». I riformisti Pd si dividono: c’è chi chiede di uscire dalla segreteria. «L’unità? È una finzione»
Fratelli d’Italia e Forza Italia imbracciano la linea dell’astensione ai referendum, con comunicati e dichiarazioni in batteria: l’8 e il 9 giugno il partito della premier invita a non andare a votare, e altrettanto fa Antonio Tajani, leader di FI: «Noi siamo per un astensionismo politico. Non condividiamo la proposta referendaria, quindi invitiamo all’astensione».
Manna per il fronte referendario, che replica alzando i decibel. L’appello a disertare le urne è «un grave errore politico e un elemento pericoloso sul piano della democrazia», secondo il segretario Cgil Maurizio Landini, a Pescara per un’iniziativa di mobilitazione sui quesiti, «il presidente della Repubblica il 25 aprile ha ricordato a tutti che voto e partecipazione politica sono la base della nostra libertà e ha chiesto a tutti di lavorare per contrastare l’astensionismo grandissimo che c’è, segno della crisi della nostra democrazia.
Quindi trovo singolare che chi ha la responsabilità politica di rappresentarci tutti inviti la gente a non andare a votare». Landini non ha dubbi: invitare a non votare vuol dire «che va bene morire sul lavoro», dice riferendosi a uno dei cinque quesiti, quello che in caso di infortunio negli appalti estende la responsabilità all’impresa appaltante.
Anche martedì due operai sono morti a Milano. Nel 2025, fin qui, le vittime del lavoro sono aumentate del 10 per cento: già 210, 19 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. «Voi per l’astensione, noi per la partecipazione», attacca la radicale e “piùeuropeista” Emma Bonino, fra le promotrici del quesito sulla cittadinanza, «un triste déjà-vu, è sempre la stessa storia: in Italia se si parla di diritti e libertà il parlamento promette e non mantiene per decenni.
Poi i cittadini si organizzano e ottengono un referendum e solo a quel punto i partiti dicono che devono essere loro ad occuparsene. Peccato che la legge sulla cittadinanza risale al 1992, un’altra era e un’altra Italia».
Le risse che fanno bene
In realtà la campagna astensionista della destra – fin qui però la Lega si tiene più defilata, forse in considerazione di un pezzo della propria base operaia al Nord – è un regalo per i referendari, che colgono l’occasione per intervenire e provare a «bucare» le pagine dei giornali e i tg. Dunque per far circolare la notizia del voto, che fin qui gran parte degli italiani ignora. Per questo, tutto sommato, fanno “brodo” anche le polemiche nelle opposizioni.
Matteo Renzi nella sua eNews ha martellato sul quesito che vuole abrogare il “suo” Jobs Act, la legge che ha cancellato di fatto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma oltre che prendersela con il sindacato e con Elly Schlein, fautori del sì anche se autori di «un racconto volutamente falso» di quella legge, se la prende con gli ex compagni di partito.
Li chiama «i miei amici riformisti del Pd», sono rei, secondo lui, di accettare i diktat della segretaria dem, il sì ai quesiti sindacali: «La prova certificata che il Pd non è più quello di prima», sostiene, «e a me va benissimo che sia così: siamo venuti via perché non sentivamo più quella come casa nostra».
Per Renzi il punto è un altro: «Se non c’è una componente di riformisti, le prossime elezioni le vince la Meloni», dunque serve «un messaggio forte e chiaro»: «Difendiamo le politiche economiche di dieci anni fa come difendiamo la scelta di Mario Draghi». E una excusatio non petita: «Io non sono uno che abiura per dieci seggi in parlamento».
Ma non dentro il Pd
È vero che i riformisti dem sono in grande sofferenza sui quesiti sindacali. Non c’è un’indicazione formale della minoranza, c’è un «orientamento»: tutti votano sì al quesito sulla cittadinanza e a quello sui subappalti, tutti sono contrari al quesito sul Jobs Act, alcuni voteranno no altri non voteranno. Sugli altri due quesiti prevale l’idea di non ritirare la scheda. Ma non ci sarà una campagna astensionista. Non viene dato credito alla notizia, che Renzi invece dà per certa, che la segretaria abbia minacciato di depennare dalle future liste chi non voterà in linea con i cinque sì.
All’ultima direzione in realtà Elly Schlein ha usato toni soft. «Il Pd supporta tutti i referendum», ha detto, «chiede di invitare tutti a votare, anche chi voterà diversamente», ma non chiede «abiure a chi non li ha firmati tutti e non voterà a favore di tutti». L’orientamento è votare, viene spiegato, ma «nel rispetto per le storie di ciascuno, affinché nessuno rinneghi sé stesso».
Se n’è parlato durante una riunione online lunedì sera, a cui si sono collegati in moltissimi, quasi un centinaio. Convocata in realtà su una questione più generale, e cioè il difficile rapporto fra minoranza riformista e maggioranza “schleiniana”.
I referendum sono solo un esempio di scelte non condivise: ma c’è anche la travagliata scelta del riarmo europeo, che presto si riproporrà sulla decisione di aumentare le spese militari. I riformisti si sono spaccati in due fra chi, come Pina Picierno e Giorgio Gori, propone di uscire dalla segreteria, e mettere fine alla finzione della «segreteria unitaria» in cui ci sono tutte le componenti ma decide la maggioranza, ovvero la segretaria.
E chi, come Stefano Bonaccini e Alessandro Alfieri, propongono di restare, per concorrere alla linea della segretaria e magari correggerne il tiro, quando (e se) possibile. «Siamo per un Pd unitario», ha spiegato uno dei presenti, «ma a patto che di questa unità possiamo essere partecipi, non ospiti». La decisione è cruciale per il clima nel partito. Ma viene rimandata a dopo le elezioni regionali.
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