Nel 1993 un referendum abolì il ministero dell’Agricoltura e delle foreste. Lo chiedevano nove regioni che volevano prendersene i poteri. Ma a stretto giro “il morto” è resuscitato con il nome di ministero delle Politiche per le ambiente. Nella stessa carneficina era finito, sempre tramite il voto popolare, il ministero del Turismo; ma nel 2009 è stato riesumato dal governo Berlusconi, nel 2013 è stato incorporato dal dicastero dei Beni culturali e alla fine l’anno scorso Mario Draghi, senza complessi, lo ha fatto tornare allo splendore di ministero autonomo, nell’assetto che ventisette anni prima il referendum aveva cancellato.

Alla vigilia di un’altra tornata di referendum abrogativi, le forze politiche che li hanno promossi – e quelle che li contrastano – si agitano per il quorum, sempre più difficile da raggiungere. Ma la strategia dell’astensionismo, teorizzata da Bettino Craxi con il suo invito ad «andare al mare» anziché votare il no al taglio della scala mobile (nel 1985 vinse lui), non è l’unica via per far fallire un quesito. C’è anche quella, più raffinata, di ignorarne l’esito. Tecnica molto praticata dai governi e dai parlamenti italiani, e favorita da diffusi fenomeni di amnesia collettiva.

Che fine ha fatto l’acqua pubblica?

Roberto Monaldo/Foto LaPresse

Il più smagliante esempio è il referendum sull’acqua pubblica. Celebrato nel giugno 2011, era partito, racconta Marco Bersani, uno dei leader di quel movimento, «nel 2005, quando una serie di comitati territoriali iniziano a coordinarsi tra loro». Nasce  il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, presenta in parlamento una legge di iniziativa popolare: un successone. Ma il testo ristagna per anni alla Camera.

«Un nuovo enorme tam tam produce un milione e 400mila firme e porta a votare sì al referendum oltre 26 milioni di persone, la maggioranza assoluta del popolo italiano». I grandi partiti lo considerano una iattura, il Pd di Bersani, Pierluigi, arriva al sì fuori tempo massimo, «a pochi metri dal traguardo, da una parte perché si accorge che avrebbe potuto vincere, dall’altra perché interpreta quella spinta come utile a mettere in crisi il governo Berlusconi».

È un plebiscito. Poi però, racconta ancora Marco Bersani «gli anni successivi sono un percorso a ostacoli. D’altronde la vittoria referendaria, con il suo no al mercato come unico regolatore sociale, appariva di un antagonismo culturale e politico senza precedenti».

L’agosto del 2011, a due mesi dalla vittoria referendaria, è quello della  lettera della Bce firmata dal due Trichet-Draghi che apre la strada alla crisi di Berlusconi e al rigore di Monti. Il movimento non si ferma, riprova con una legge d’iniziativa popolare che però «non va oltre le commissioni».

Intanto «a livello locale le grandi multiutility fanno pressioni enormi». Insomma: «I risultati non si sono visti. Con l’unica eccezione di Napoli, che con la giunta De Magistris ha attuato il referendum». Oggi la beffa conclusiva: «Ora c’è il rischio di chiudere quella stagione con l’approvazione del ddl Concorrenza. Il provvedimento riesce a dire, all’articolo 6, che la funzione di un comune è quella di ricorrere al mercato per la gestione di tutti i propri servizi, da quelli a “rilevanza economica”, dunque acqua, energia, rifiuti, trasporto locale, fino ai servizi sociali e culturali; e se un comune decide di autoprodurre un servizio, deve sottoporsi a una trafila di procedure, compreso il passaggio all’Antitrust. È il tentativo di rendere definitiva la privatizzazione dei servizi pubblici locali e di stravolgere la storica funzione pubblica e sociale dei comuni. Un tentativo che va fermato senza se e senza ma». Eppure, almeno sull’acqua, era già stato fermato dieci anni fa.

Tutti dimenticati

Foto LaPresse/Marco Merlini

I radicali, partito referendario per antonomasia, hanno i loro cavalli di battaglia quanto a referendum ignorati. Fra i principali, il finanziamento dei partiti e la responsabilità civile dei magistrati. Il primo è stato abolito nell’aprile del 1993 e ripristinato subito nel dicembre dello stesso anno (legge 515). Poi di nuovo abolito, questa volta da una legge, nel 2014 dal governo di Enrico Letta, e ora di nuovo in odore di riabilitazione, come male minore, viste le disastrose conseguenze dei soldi versati dai privati alle forze politiche e alle fondazioni.

Ma è la responsabilità civile dei magistrati a essere citata ogni giorno negli approfondimenti di Radio Radicale, complice la recentissima bocciatura da parte della Corte costituzionale di un nuovo referendum sullo stesso tema.

Il quesito votato nel 1987 poggiava sull’articolo 28 della Costituzione che prevede che «ogni singolo funzionario, compresi i giudici, siano direttamente responsabili per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni». Vinto il referendum, trovato l’inganno: inventata cioè una legge che fingeva di accoglierne il principio, e invece lo rovesciava e rendeva impossibile – i dati lo confermano – il meccanismo.

Lo stesso Marco Pannella lo denunciò in ogni sede. Lo si legge sulla pubblicazione Noi del 1993: «Psi e Pli erano con noi. Ebbene, appena un anno dopo, la lobby corporativa dei giudici riportò una sua ignominiosa vittoria: stracciando Costituzione e democrazia, grazie anche a un parlamento servile e cieco, un ministro di Grazia e giustizia socialista (Giuliano Vassalli) ottenne la pratica abolizione di un principio che doveva invece essere esteso e reso effettivo».

Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga promulgò, e secondo Pannella finì che poi Vassalli riscosse un premio «Il partito socialista lo ha trasferito alla Corte costituzionale, dove siede a giudicare le sue stesse leggi: e, solo per un pelo, Craxi ha mancato di farlo eleggere alla presidenza della Repubblica».

Anni dopo Pannella raccontò che Craxi, ormai fuggito a Tunisi, era pentito di essersi fatto prendere la mano da Vassalli, giurista, partigiano ma anche uno dei socialisti che non aveva condiviso il referendum. La lista è lunga, c’è anche il voto sull’ingresso dei privati nella Rai, 1995. Vinto, e dimenticato.

Il caso del nucleare

Mauro Scrobogna/Foto LaPresse

Tecnicamente non sono invece stati “traditi” i referendum contro il nucleare. Anche se le recenti intemperanti dichiarazioni del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani lasciano qualche dubbio: il nucleare escluso nel 1987 con voto popolare era quello «di prima generazione», ha sostenuto, «In futuro, quando avremo tutti i dati sui costi per megawatt, sulla produzione di scorie radioattive, su quanto sono sicure le centrali di quarta generazione, allora il paese potrà prendere le sue decisioni». 

Edo Ronchi, ex ministro, storico ambientalista ed estensore dei primi tre quesiti del 1987, conferma che di tradimento in senso stretto non si tratta: «I quesiti non lo vietavano direttamente perché non esisteva una legge sul nucleare, ma modificavano le normative che consentivano di fare le centrali nucleari». 

Il primo quesito chiedeva l’abolizione dell’intervento statale nel caso in cui un comune non avesse concesso un sito per una centrale nucleare; il secondo abrogava i contributi statali ai comuni per la presenza di centrali nucleari sui loro territori; il terzo aboliva per l’Enel la possibilità di costruire centrali all’estero.

Per questo fu possibile che nel 2011 se ne riparlasse, con un altro referendum: «Nel 2009 il governo Berlusconi vuole tornare al nucleare. Fa una nuova legge e dà la possibilità di fare centrali nucleari con altre procedure rispetto a quelle abrogate. E allora si raccolgono le firme per prevedere un nuovo referendum».

Nuova valanga di no nukes, «anche se i partecipanti furono meno del 60 per cento perché i filonucleari pensavano di boicottare il referendum». Insomma Cingolani è un “traditore”, ma solo a metà: «Un conto è la ricerca, che non è stata mai limitata, un conto è la programmazione e la realizzazione di impianti innovativi. Che saranno innovativi quanto si vuole, ma sempre basati sulla fissione, dunque non sono consentiti, e ci  vorrebbe una legge che però contrasterebbe il referendum fatto. Infatti il ministro fra le tante dichiarazioni ha detto anche che “in Italia non lo possiamo fare perché c’è stato un referendum”. E in effetti non lo possiamo fare. Ma attenzione, il parlamento è sovrano: può varare una legge che, modificando il testo abrogato, lo ripristina».

Più tranchant Ermete Realacci, già presidente di Legambiente e ora di Symbola: «Chi ripropone il nucleare fa chiacchiere da bar. L’anno scorso in tutto il mondo la produzione di energia da nucleare è calata di 3mila megawatt e quella da rinnovabili è aumentata di 290mila megawatt. In Francia Emmanuel Macron fa un po’ di campagna elettorale ma se non ci mette molti soldi pubblici fallirà anche la centrale in costruzione a Flamanville, in ritardo di oltre sette anni e con costi triplicati».

Per questo la “tassonomia” della Ue, dice Realacci, «consente i finanziamenti. Certo, se qualcuno vuole vendere il nucleare ai paesi arabi preferisco sia la Francia anziché la Russia o la Cina. Ma in occidente al nucleare non crede più nessuno. Neanche Matteo Salvini: lo voglio vedere a dire a Luca Zaia che costruisce una centrale in qualche paese del Veneto per far pagare l’energia di più agli italiani. La ricerca sulla fusione va fatta perché può aprire altre porte: se non facevamo i voli spaziali non avremmo oggi i pannelli fotovoltaici. Ma una cosa è la ricerca, il resto sono solo ragionamenti oziosi».

Maria Laura Antonelli / AGF

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