«Il centrodestra non esiste più». È il giorno in cui le destre svelano il loro piano sul referendum del 20 e 21 settembre sul taglio dei parlamentari – votare No, nonostante le dichiarazioni pubbliche opposte, sommarsi all’area del No di sinistra per dare una spallata al governo, sul modello del dicembre 2016 – eppure il segretario del Pd Nicola Zingaretti fa uno scarto nel ragionamento, si concentra sulle regionali, inizia il discorso da un punto di vista più alto. «La destra nazionalista ha fallito», spiega, «la sua proposta antieuropea ci aveva isolato. Affrontare il Covid con quell’impianto politico sarebbe stato un dramma.  Oggi dunque non esiste una proposta di governo del centrodestra». Secondo Zingaretti al posto del vecchio centrodestra c’è ormai «una destra estremista che di nuovo chiede consenso cavalcando i problemi». L’appello è dunque di nuovo per gli alleati di M5s e Italia viva e i loro votanti: «Il Pd con le sue liste, alleanze e candidati, è l’unico partito che sostiene il governo Conte presente ovunque: dalla Val d’Aosta ai comuni siciliani.  Siamo l’unico argine intorno al quale si è organizzata la speranza del buon governo. E l’unico argine credibile all’avanzata delle destre. Non è un’opinione, è un dato oggettivo». La conseguenza per Zingaretti è che «bisogna combattere, chiedo a tutti gli elettori di unirsi intorno a queste candidature per vincere», in gioco non c’è il destino di candidati, ma «la tenuta della nazione. Gli oltre 300 miliardi di risorse europee sono davvero l’ultima possibilità per l’Italia di rinascere e toglierla dal ricatto populista e dalle follie nazionaliste. Non me ne vogliano gli alleati: la destra si ferma vincendo le elezioni, non facendo testimonianza».

Quindi non è il referendum costituzionale del 20 e 21 settembre la vera preoccupazione del segretario del Pd. Eppure nella giornata di ieri le destre hanno tirato giù la maschera, o meglio la mascherina data la tendenza al negazionismo, e hanno svelato quello che in realtà non è stato mai un segreto: ufficialmente l’indicazione di voto per quesito sul taglio dei parlamentari è Sì, ma da Roma verso i territori l’indicazione ufficiosa è per il No. E non da ieri. Il primo a dire che vota No è stato il parlamentare leghista no-euro Claudio Borghi, ieri è stata la volta dell’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti, poi del presidente della Lombardia Attilio Fontana.

 Da Ascoli Piceno il leader della Lega Matteo Salvini non smentisce i dirigenti che annunciano di disobbedire: «La Lega non è una caserma», ho votato e voterò sì» ma «il referendum è il trionfo della democrazia, della libertà di pensiero, ogni cittadino deciderà con la sua testa». Che la Lega arrivasse presto alla sostanziale libertà di coscienza – tradotto, al consiglio per il no- era già scritto. Da giorni, per esempio, proprio nelle Marche circola un manifesto leghista: «Domenica 20 settembre e lunedì 21 settembre ricorda di andare a votare». Andare a votare, dunque: non necessariamente sì.

Che il referendum diventi un voto contro il governo può, a prima vista, fare il gioco delle opposizioni. Ma in realtà non quello delle leadership: Salvini sa che ogni No dei suoi, soprattutto parlamentari e dirigenti, contiene anche un dissenso anche sulla linea politica. Assai più pericoloso, per lui che per il governo Conte.

Ragionamento che circola, ma con accenti assai meno preoccupanti, anche in Fratelli d’Italia. Ieri una nota ufficiale del partito ha smentito la prima pagina del Giornale che titolava «Svolta della Meloni: con il No vanno a casa». L’occasione erano delle parole della presidente Fdi («l’idea  che la vittoria del No possa creare un sommovimento del governo rischia di avere la meglio») tradotte come un No anche se «criptico». Una forzatura, per Fdi, «l'unica forza d'opposizione in parlamento a votare quattro volte sì alla riforma e l'unico partito a non chiedere il referendum».

Nella Lega invece ormai la diga del No si è rotta. E l’ex ministro Roberto Castelli: «Io credo che l'80 per cento dei nostri elettori voterà no». Ma anche i parlamentari: «Lì penso al 100 per cento di No», dice Castelli. Chiunque abbia fatto un giro a Montecitorio nei giorni scorsi, prima della pausa preelettorale, sa che le cose stanno così.

Sul referendum ormai i vertici del Pd preferiscono evitare le polemiche. Ora anche con quella parte del popolo di sinistra, dallo scrittore Roberto Saviano alle Sardine, che cannoneggia per il No. Per i dem il vero voto cruciale è solo quello delle regioni. Sui social il vicesegretario Andrea Orlando spiega che il 20 e il 21 settembre si terrà «un referendum», sì, ma sulla sanità: «Due ministri della Sanità, forse non casualmente due partigiani, vollero la riforma del Sistema Sanitario, lo costruirono pubblico ed universalistico. Il 20-21 ci saranno due referendum. L'oggetto del primo, il numero dei parlamentari, è noto. Il secondo è implicito e riguarda la sanità. Se vince la destra proseguirà un processo di privatizzazione del settore. Tutti devono essere curati a prescindere dall’età, dalla condizione sociale o dal luogo di nascita. Quando è in gioco la salute a decidere deve esse un medico e non il mercato». Il gruppo dirigente vicino a Zingaretti lavora ventre a terra sulle regionali. Toscana, Puglia e Marche sono le regioni in bilico e che possono fare la differenza il giorno dopo il voto nella «tenuta della nazione», cioè del governo, di cui parla il segretario.

Ieri mattina nella sede del partito è stato presentato il piano per la svolta green di Taranto: ben tre i ministri schierati, quello dell’economia Roberto Gualtieri, quello delle regioni Francesco Boccia, quello del sud Giuseppe Provenzano. La promessa è che «la decarbonizzazione di Ilva sarà tra le priorità del Recovery Plan italiano, con il mantenimento dei livelli occupazionali e produttivi» (Gualtieri); «Lo Stato italiano è in debito con Taranto, dobbiamo cominciare a saldare questo debito nel più breve tempo possibile»(Provenzano); «Finalmente tutta la comunità tarantina sa che ha il Pd dalla sua parte: questo è un grande salto, Nicola Zingaretti ha portato il più grande partito della sinistra italiana a riprendersi i temi della transizione energetica che non può prescindere dall’Ilva, dall'Ilva verde». Un progetto utile al paese, ma certo anche una carta per la corsa in salita del presidente uscente Michele Emiliano.

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