Quella britannica, nonostante la Brexit, rimane la terza comunità italiana nel continente europeo. Qui, in percentuale, si è votato più che in Calabria e in Trentino. L’errore di usare i voti assoluti per attaccare il governo
Nelle analisi svolte finora sui risultati del voto referendario dell’8 e 9 giugno, i dati relativi agli italiani residenti all’estero non vengono mai considerati. Ciò avviene in parte perché si tratta, storicamente, di un elettorato con una bassissima affluenza e con implicazioni marginali, e in parte perché le modalità di voto sono differenti, i collegi elettorali eterogenei e rappresentano forme migratorie e comunità di expat profondamente diverse tra loro.
Nel Regno Unito, che nonostante la Brexit rimane la terza comunità italiana nel continente europeo e la meta principale dei flussi in uscita dei giovani italiani, coloro che, come ho fatto io, hanno rispedito il plico elettorale sono stati il 24,52 per cento degli aventi diritto. In altre parole, in percentuale, hanno votato più italiani nel Regno Unito che calabresi (23,81 per cento) o trentini (22,70 per cento).
A livello globale, l’affluenza degli italiani all’estero è stata del 23,76 per cento, pari a circa un milione di voti che potrebbero essere dunque sommati a quel fantomatico numero assoluto, quei 14 milioni di voti contrapposti ai 12,3 ottenuti da Fratelli d’Italia alle ultime elezioni politiche. Una cifra individuata dai partiti favorevoli ai cinque Sì (leggasi Pd) come la presunta “soglia” della salvezza politica.
Quanto ai risultati, rispetto all’Italia, gli italiani all’estero non hanno mostrato le stesse granitiche preferenze sui quesiti relativi al lavoro, anche se i quattro Sì hanno comunque prevalso. Sulla cittadinanza, invece, hanno sostanzialmente replicato l’esito italiano, con una significativa eccezione: in Svizzera, terra di storica emigrazione e con una numerosa comunità italiana, hanno prevalso i No*.
Una sconfitta politica
Qualcosa vorrà dire. Secondo YouTrend la “soglia” è stata raggiunta solo se si considerano i quesiti sul lavoro, mentre rimane molto lontana sulla cittadinanza, sulla quale i Sì si sono fermati ben sotto i 10 milioni.
Questi dati, presentati qui un po’ a casaccio e senza alcuna pretesa di completezza, accentuano ulteriormente la portata della batosta politica. Perché di questo si tratta; non una disfatta umiliante, ma una sconfitta politica netta.
Ora, fatta l’anamnesi e dato per assunto che confrontare i voti assoluti espressi in un turno referendario con quelli ottenuti da un partito alle elezioni politiche – partito che, peraltro, rappresenta solo una componente della maggioranza di governo e non l’intero esecutivo – sia un esercizio più di sopravvivenza che altro, come se bastasse partecipare per sentirsi moralmente vincitori, vale comunque la pena soffermarsi sulle implicazioni legate al perseguire la narrativa dei «12 milioni di voti». Perché per poter costruire una proposta partendo da questi voti si deve anzitutto accettare che rappresentano un minoritario 30 per cento degli italiani che dovrà aumentare, e non di poco.
Uno strumento democratico
Questi referendum intendevano correggere leggi o parti di leggi oggi inadeguate o ingiuste che sindacati in primis e società civile non riescono più a combattere in solitudine. Se qualcuno vuole vedere come un successo il fatto che i partiti abbiano ritrovato (finalmente!) il coraggio di parlare ai lavoratori e alla società, va bene, accontentiamoci.
Ma la narrativa dei 12 milioni di voti + 1 dall’estero (o 14 o 10, scegliete voi il valore assoluto che preferite) è concettualmente sbagliata, istituzionalmente pericolosa, politicamente inadeguata e, probabilmente, anche strategicamente fallimentare.
I referendum sono cosa diversa dalle elezioni politiche e, francamente, appellarsi a un dispositivo delicato come la democrazia diretta – che ha avuto un ruolo cruciale nella storia della Repubblica italiana – solo per fare la conta del proprio elettorato è, a dir poco, inopportuno. Il rischio è quello di legittimare la delegittimazione stessa del referendum come strumento democratico.
Populismo ipersemplificato
Si rischia inoltre di far apparire gli elettori come stupidi o, peggio ancora, inutili. Dopo aver chiesto loro di esprimersi su quesiti specifici e complessi, gli si dice che, in realtà, hanno votato per qualcos’altro: una sorta di secondo round, una gara di consenso stile “televoto” contro “giuria” come a Sanremo, ma priva di conseguenze reali.
Di fatto, in parlamento nulla cambia e, istituzionalmente, nulla sarebbe cambiato nemmeno se fosse stato raggiunto il quorum. A lungo andare, si finisce per parlare solo alla propria “bolla”, senza nemmeno tentare di guardare oltre.
Ma soprattutto – ed è questo l’errore politico più grave – nascondersi dietro una presunta (e in realtà decisamente minoritaria) “volontà popolare”, misurata attraverso elezioni di scala e non esplicite, significa inseguire esattamente ciò che si intende combattere: un populismo ipersemplificato, incapace di gestire la complessità e refrattario alla rappresentanza politico-istituzionale, che punta invece a un rapporto diretto e permanente con un elettorato mobilitato ma non organizzato. Siamo proprio sicuri che si debba ripartire da lì?
*Dati forniti da Ivan Galenda e Lorenzo Ammirati del circolo Pd di Londra
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