Il successo dei quesiti sull’eutanasia legale e per la legalizzazione della cannabis hanno riportato al centro del dibattito pubblico l’istituto del referendum. Le raccolte firme, facilitate dalla nuova possibilità di sottoscrivere anche con firma digitale attraverso lo Spid, hanno totalizzato numeri record in poco tempo, nonostante le iniziative referendarie siano sostenute principalmente da associazioni come la Luca Coscioni e non da macchine organizzative di dimensioni maggiori come quelle dei partiti.

Il quesito sull’eutanasia legale, la cui campagna è cominciata il 1 luglio, ha quasi raccolto le 500 mila firme necessarie e così è anche per quello sulla legalizzazione della cannabis, che in appena quattro giorni ha raccolto 420 mila firme.

Proprio questa mobilitazione pubblica sembra aver spiazzato soprattutto i partiti: nessuno si aspettava un tale successo di partecipazione, che costringe la politica stessa a interrogarsi e a mettere in discussione il suo ruolo soprattutto in parlamento. 

Entrambe le questioni referendarie, infatti, sono da tempo al centro dell’iniziativa legislativa parlamentare, che però mai ha avuto successo. In particolare l’eutanasia legale è stata oggetto di una dura sentenza della corte Costituzionale, che ha inutilmente sollecitato le camere a legiferare in materia.

Il tema della legalizzazione della cannabis, invece, è stato portato alla Camera come disegno di legge proprio la scorsa settimana, sostenuto dal Partito democratico, Più Europa, Movimento 5 Stelle e Leu.

Una delle critiche che spesso vengono mosse ai referendum, infatti, è proprio questa: rischiano di intralciare l’attività del parlamento, che coi suoi tempi sta arrivando a normare le materie oggetto dei quesiti. E, a differenza dei referendum abrogativi che devono fare un lavoro di “taglia e cuci” dei testi di legge rischiando anche effetti distorsivi, le leggi di iniziativa parlamentare hanno il pregio di poter essere articolate e coordinate.

A dimostrazione di come i cosiddetti istituti di democrazia partecipativa previsti dalla Costituzione siano sempre stati guardati con perplessità dai partiti, basta guardare i dati sulle leggi di iniziativa popolare.

Se i referendum sono uno strumento estremo ma efficace – si raccolgono 500 mila firme e, dopo il via libera di ammissibilità della Corte costituzionale il referendum si deve svolgere – alle proposte di legge presentate alle camere con la firma di 50 mila elettori è sempre toccata la sorte ingrata del disinteresse.

I numeri

Analizzando il passato recente, nella passata legislatura - dal 2013 al 2018 - sono state presentate 43 proposte di legge di iniziativa popolare: 8 al Senato e 35 alla Camera. In questa legislatura, invece, sono 26: 5 al Senato e 21 alla Camera.

Di questi 69 testi, per 40 non è ancora iniziato l’esame in commissione (24 di quelle presentate nella passata legislatura, 16 in quella attuale); alcune sono state assorbite in altri testi legislativi; una decina sono in corso di esame e alcune da più di una legislatura; le rimanenti invece sono ancora ferme senza nemmeno essere state assegnate. Nessuna, invece, è stata approvata.

Il dato, tuttavia, è perfettamente in linea con il trend del passato. Tra il 1979 ed il 2014, infatti, sono state presentate 260 proposte alla Camere e di queste solo il 43 per cento è arrivato ad essere discusso in commissione parlamentare. L’approdo in commissione, del resto, è di fatto il massimo successo possibile. Nella storia italiana, infatti, solamente quattro proposte di legge di iniziativa popolare sono riuscite a diventare legge dello Stato. Nel 1983, la legge sulla disciplina e l’affidamento dei minori; nel 1992, una legge sulla protezione della fauna selvatica e l’ultima nel 2000, una legge quadro in materia di riordino dei cicli di istruzione. Nel 2018, una legge in materia di legittima difesa. In tutti e quattro i casi, le proposte sono diventate legge solamente perché accorpate in testi unificati con proposte di iniziativa parlamentare o governativa e dunque hanno – legittimamente – subito modifiche anche sostanziali rispetto al testo iniziale.

Tradotto in percentuale, l’iniziativa della raccolta firme per promuovere una legge ha successo producendo un effetto concreto solo nell’1,1 per cento dei casi. 

Ritornando al presente, è interessante notare che esistono tre leggi di iniziativa popolare sepolte negli ordini del giorno delle camere che ricalcano in tutto o in parte i quesiti referendari per cui oggi si raccolgono le firme.

In materia di eutanasia legale, esiste una proposta di legge popolare del 2013 ed è ferma per l’esame in commissione alla Camera dal 3 marzo 2016.

Sulla cannabis legale, la proposta è del 2016 ed è stata assegnata in commissione il 30 ottobre 2017, ma l’esame non è mai iniziato.

In materia di giustizia e di separazione delle carriere, infine, la proposta di legge di iniziativa popolare promossa dall’Unione camere penali italiane è stata assegnata alla commissione Affari costituzionali della Camera ed è ferma dal 20 dicembre 2017.

Il parlamento, quindi, era stato già investito di proposte di legge sugli stessi temi del referendum e ha avuto almeno tre anni di tempo per prenderle in carico, anche solo a livello di vaglio in commissione. L’iter, tuttavia, si è sempre interrotto oppure non è nemmeno cominciato.

L’effetto

La principale ragione di critica agli istituti di democrazia partecipativa è che mobilitano un numero tutto sommato molto ridotto di persone. Per la proposta di legge popolare servono 50 mila firme, per il referendum 500 mila: una minoranza di elettori qualificata e molto interessata a un singolo tema, che però di per sè non significa automaticamente che la questione sia di interesse generale e che quindi debba avere precedenza nel calendario dei lavori. 

Queste leggi non hanno diritto, solo perchè promosse dai cittadini, a corsie preferenziali per l’approvazione. Tuttavia i numeri certificano che non viaggiano nemmeno su vie normali ma finiscono nella quasi totalità dei casi su un binario morto. 

E’ certo che uno degli scopi dei promotori di queste leggi sia – prima ancora di sperare nell’approvazione – quello di creare mobilitazione e adesione intorno a un tema. Tuttavia il trend di disinteresse della politica contribuisce a mostrare la distanza sempre più ampia che rischia di separare il legislatore in parlamento dal cittadino nelle piazze: pochi o tanti che siano, i firmatari delle leggi popolari sembrano non trovare mai ascolto. 

E forse anche questo giustifica la massiccia adesione alla sottoscrizione dei referendum: le leggi di iniziativa popolare non hanno avuto successo, il legislatore ha provato a prendere in carico le materie ma senza successo, vedremo se la chiamata al voto dei cittadini dopo la raccolta firme otterrà il successo sperato.

Se si aprisse una nuova stagione di successi per il referendum – come quella che si verificò a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta –, la politica rischia però di dover ripensare il ragionamento secondo il quale i promotori di raccolte firme sono solo minoranze qualificate, poco rappresentative rispetto alla totalità del paese.

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