Regionali, affluenza ai minimi. E Zaia pensa al dopo Salvini

«Coinvolgere tutti è solo nel suo interesse». Uno dei colonnelli di Fratelli d’Italia non ha dubbi: Alberto Stefani martedì sarà il nuovo presidente del Veneto – e questa non è la notizia – ma non sarà più «un uomo solo al comando» come lo è stato per diversi lustri Luca Zaia. Nel bene e nel male, per Stefani stesso ma soprattutto per i meloniani, che pur non avendo alla fine scelto il candidato presidente sono pronti ad allargare la loro presa sulla regione. Di conseguenza, la politica dovrà svolgere molto più lavoro di mediazione: «Non c’è più uno che decide e tutti – anche loro (dove “loro” sono i leghisti, ndr) – se lo devono far stare bene». Preoccupa un po’ la bassa affluenza (in calo ieri di quasi 13 punti in Veneto – al 33,88 per cento – di dieci punti in Puglia – al 29,45 per cento – e di oltre sei punti in Campania, 32,07), sintomo secondo l’uomo di Meloni di uno scarso interesse, di tutti gli elettorati, per una tornata elettorale considerata già decisa a priori. Ma la partita veneta si incastona in un discorso più ampio, che tiene conto degli equilibri nazionali e dei potenziali aggiustamenti derivanti da quest’elezione. Di sicuro, la Lega punta a trasformare il voto in una boccata d’aria in un periodo in cui il Carroccio appare in fase declinante. Dal versante meloniano si mostrano generosi: «È giusto che il candidato alla fine sia stato leghista. Una Lega debole non serve a nessuno» dice il colonnello. È sulla stessa lunghezza d’onda della sua presidente del Consiglio, che ieri da Johannesburg spiegava che «quello di Salvini non è un controcanto». Ricette contro le disuguaglianze, come fermare l’estrema destra 2.0 Anzi, ben vengano le uscite spigolose del vice: «Noi siamo una coalizione, non siamo una caserma. All'interno della mia maggioranza è un bene che tutti esprimano chiaramente le loro posizioni, perché questo aiuta anche me a ragionare». Un ramoscello d’ulivo? Sta di fatto che nel suo partito addirittura si spingono a non prendere in considerazione uno scenario che appare probabile, quello del sorpasso FdI-Carroccio. Nel 2020 la Lega aveva preso il 17 per cento, FdI il 9,6. La lista di Zaia aveva fatto la parte del leone, portando a casa il 44,6 per cento delle preferenze. Timori leghisti «Ma quelli erano altri tempi, c’era il Covid e oggi FdI ha il triplo dei nostri voti» mette le mani avanti un parlamentare leghista lontano dal mondo di Zaia. Certo, la faccia su una maggioranza a guida FdI (e le sue richieste) la dovrebbe mettere comunque Stefani, un concetto che il parlamentare sintetizza con un eufemismo «una gestione meno efficace». Resta il fatto che per i leghisti “salviniani” l’uscita di scena – almeno per quanto riguarda il Veneto – del Doge ha dell’incredibile e si spingono a sperare in una svolta che incardini la regione molto di più nelle dinamiche nazionali. A differenza di prima, quando Zaia aveva creato una sua dimensione autonoma. Oltre che, ovviamente, immaginare un legame più saldo con il segretario Matteo Salvini che, dopotutto, l’ha scelto. Ma perché gli elettori dovrebbero preferire il successore designato al presidente originale? «In Veneto c’è un grosso tema di infrastrutture: su quello un asse con il ministero delle Infrastrutture torna sempre comodo...» Altro che autonomia zaiana, insomma, le necessità dei veneti oggi sono altre. Le opinioni si dividono invece sul destino del Doge stesso. Di certo, l’insofferenza di Zaia per la fuga in avanti di Salvini, che aveva ipotizzato per lui un incarico di parlamentare in sostituzione proprio di Stefani, non sembra avvalorare la possibilità di un passaggio alla politica nazionale. Anche se il candidato leghista era alla guida della commissione per l'attuazione del federalismo fiscale, tema sempre caro alla “vecchia” Lega. A differenza dei suoi due colleghi Michele Emiliano in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania, Zaia non sembra però neanche interessato a uno scenario in cui resti a Venezia a fare il “secondo”. E allora, l’ipotesi più avvalorata è quella di un incarico di altro tipo. E qui le teorie si sbizzarriscono: c’è chi, lo vede al lavoro sull’autonomia, mentre qualcun altro lo vede già nella rosa di nomi che torneranno utili in primavera, quando scadono una serie di incarichi apicali nelle società controllate. In cima alla lista, secondo i ben informati, per Zaia ci sarebbe ancora la presidenza dell’Eni. Veneto, obiettivo: stravincere. Meloni parla di unità ma è tutti contro tutti Il peso nel partito Ma c’è un altro elemento da considerare per il futuro del presidente uscente: il suo ruolo nel partito. Da sempre avversario interno del segretario, Zaia non ha mai trasformato in azione le aspettative che altri insoddisfatti hanno proiettato su di lui. Rivale di Salvini solo in potenza, il dubbio ora è se la mancanza della politica regionale possa fargli crescere altri appetiti. C’è chi non ci crede: «Avesse voluto formare una corrente, l’avrebbe già fatto», ma altri invitano alla pazienza. «È anche un’occasione per pesarsi» dice un militante di lungo corso. Nel 2020, la lista Zaia aveva preso la cifra incredibile di 916mila voti. Un numero esagerato, che però crea aspettative sulla performance di queste ore: «Se dovesse stare comunque sulle 500mila preferenze è una cosa, se rimanesse sotto è un’altra» ragiona il leghista. Ma Zaia resta il nome su cui si concentrano le speranze dei leghisti per il futuro: è già nell’aria un cambiamento dopo le elezioni politiche del 2027. A quel punto, la traiettoria di Salvini potrebbe essere infatti esaurita, e la Lega storica vedrebbe bene un ritorno alle origini, opposto alla spinta nera e nazionalista di Roberto Vannacci. E per quell’incarico, chi meglio del presidente uscente? Certo, racconta chi ha avuto modo di captare il sentiment veneto nelle ultime settimane, contro il presidente uscente si registra una certa insofferenza. Soprattutto da parte della sua squadra, che ha vissuto l’uscita di Zaia come un tradimento. O meglio, una trattativa mirata a risolvere soltanto il proprio futuro. Nomi come quello degli assessori Federico Caner, Roberto Marcato e Gianpaolo Bottacin, una volta fedelissimi al Doge, non vengono più considerati così vicini. E sono tutti portatori di voti. «Dopo Zaia scrivi Zaia non piace a tutti...», dice il leghista. Ma magari, i piani del Doge sono altri.