Il voto utile fa male, soprattutto a chi non lo può invocare. Per questo ieri su Enrico Letta, che lo evoca ogni due per tre, si è scatenata la bufera. I due Mattei, Renzi e Salvini, in curiosa consonanza, gli pronosticano il ritorno a Parigi perché, lo avvertono, perderà le elezioni e subito dopo anche il partito. Giuseppe Conte lo accusa di dire bugie.

Il presidente del M5s, come Renzi, spera di attirare gli eventuali «delusi» del Pd. Ma se il leader di Iv punta ai fedeli di Mario Draghi, l’altro è sicuro di portare a casa il voto di quelli che guardano a sinistra. Quello che devono evitare, tutti e tre leader, è la «polarizzazione»: ovvero l’imperativo categorico della campagna elettorale del Pd. Il segretario dem scommette di raggiungere, se non scavalcare, i voti di Giorgia Meloni.

E per farlo deve cercare lo scontro diretto con lei, la favoritissima, e solo con lei. Per questo nella sua comunicazione gli altri competitor sfumano, quasi spariscono. La frammentazione del voto, dopo il fallimento dell’alleanza con il M5s e la rottura di Calenda, non consente altre scelte. Domani mattina al forum di Cernobbio (Como) andrà in scena un primo confronto fra leader. Tavolo per sei: Salvini, Meloni, Tajani, Conte, Calenda e Letta. Nel pomeriggio Letta e Tajani si trasferiscono al Festival della Tv a Dogliani (Cuneo): ma in confronti rigorosamente separati. Condizione messa da Letta.

Quando a Renzi piaceva

Quelli che inseguono cercano di rompere il meccanismo. Che, va detto, non dispiace affatto a Meloni perché le consegna da subito il posto d’onore nella coalizione delle destre. Renzi dunque attacca a testa bassa dalla enews e poi dal lancio della lista a Milano: «C’è un uomo a cui va tutta la simpatia umana, perché ha avuto una estate difficile: Letta. Ha detto “chi vota Calenda vota per la Meloni”. Capisco che sono mesi complessi per Enrico, ma gli faccio un tutorial: chi vota per la destra vota Meloni e Salvini. Chi vota per il terzo polo vota per Calenda e Renzi: Chi vota a sinistra vota Letta e Di Maio, questo è il dramma di cui non si sono resi conto».

Eppure a suo tempo, quando credeva di avere il vento in poppa, Renzi usava la stessa tecnica: «Chi vota D’Alema aiuta Salvini», tuonava nel febbraio del 2018, «va chiarito ai compagni della sinistra radicale che il loro voto va a destra». Era la vigilia delle politiche, e i “compagni” erano gli scissionisti di Art.1. La Ditta Bersani&Co aveva abbandonato il Pd. Che, come ricorda Letta, crollò al 18 per cento dei consensi e cioè al minimo storico di quel partito. «Qualche anno fa, dopo il trattamento Renzi, il Pd ha rischiato di fare la fine del Partito socialista francese e del Pasok greco. Allora la stessa esistenza del Pd era in pericolo perché avevano provato a distruggerlo», ha rincarato ieri all’Espresso. E comunque il «voto utile» a quell’epoca non era una arma impropria, per l’allora segretario del Pd.

Oggi Renzi ci riprova con l’«Enrico stai sereno», preconizzando la fine della segreteria in corso: «Penso che dal 26 settembre partirà il congresso Pd perché la strategia di Letta lo porterà a una sonora sconfitta». La stessa cosa dice Salvini, dall’Emilia-Romagna, per interposto presidente della regione: «Bonaccini è distratto, poverino, è impegnato nella guerra interna al suo partito, sta cercando di far le scarpe a Letta e quindi è lì che gufa sperando che il Pd vada male». Salvini in realtà ha lo stesso problema che attribuisce all’avversario: ogni giorno ormai un sondaggio segnala che la Lega è sorpassata dal M5s; se il voto andasse così, anche la sua leadership sarebbe a rischio.

Dal Nazareno come da copione non arrivano repliche. Viene spiegato che «sia Renzi che Carlo Calenda cercano lo scontro con il Pd al solo scopo di autolegittimarsi». Il segretario a Renzi non risponde – il meccanismo è quello del “ghosting”, si usa in rete per seminare gli interlocutori molesti – ma in generale evita la replica diretta: «Sono concentrato sul 25 settembre», si schermisce.

Il congresso si vince prima

Non che il tema sia del tutto un’invenzione da campagna elettorale. Il congresso del Pd, a scadenza naturale, si svolgerebbe in marzo. La sorte del segretario in carica è la vera partita interna del voto politico. Sarebbe difficile disarcionare il leader del primo partito italiano, o comunque di un Pd in netta ripresa. Anche per questo Letta ammette di giocarsela «punto per punto senza tregua». Ma per vincere, dice lui: «Questa legge elettorale crea un’alternativa binaria: o il centrodestra o il centrosinistra. Noi siamo molto concentrati sulla proposta che faremo nel parlare con le persone e dire che l’unica alternativa veramente vincente al centrodestra di Meloni e Salvini è il nostro centrosinistra, è il nostro Pd».

Ma è su questo che arriva l’artiglieria di Conte, impegnato a sua volta in un’altra narrazione fantasiosa quanto insidiosa: quella secondo cui solo i Cinque stelle possano essere votati dalla «sinistra genuina». «Se i cittadini vogliono che per cinque anni si realizzi un’agenda progressista devono votare il M5s. Letta vuole costruire un inganno, volendo bipolarizzare questa partita politica e facendo credere che l’unico da votare in alternativa alle ricette insostenibili e inadeguate della destra della Meloni sia lui con il Pd».

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