«Oggi non parliamo di me, parliamo di noi» ha detto Matteo Renzi a Palazzo Madama, e il Senato ha dato ragione all’ex premier accusato di finanziamento illecito ai partiti con 167 voti a favore e 76 contrari: oggi pomeriggio la maggioranza composta da Pd, Italia viva e centrodestra ha votato sì conflitto di attribuzione tra poteri dello stato davanti alla Corte costituzionale contro la magistratura su alcuni messaggi whatsapp negli atti di indagine sulla fondazione Open.

Per i pm Luca Turco e Antonino Nastasi la fondazione è stata il tramite attraverso cui far fluire denaro a favore di Renzi e dei renziani in maniera illecita.

La maggioranza d’accordo

Prima del voto, il deputato Stefano Ceccanti, costituzionalista e capogruppo della commissione Affari costituzionali alla Camera del Pd aveva pubblicato un post sul suo blog: «Pesante invasione di campo della procura», ed esortava i colleghi: «È il momento di difendere il parlamento e l'articolo 68 della Costituzione» sull’immunità. Per Forza Italia il caso di Renzi ricorda Silvio Berlusconi, plurindagato e condannato, per la Lega il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, che proprio ieri ha visto l’archiviazione del caso sul conto svizzero della madre, ma per mancanza di elementi.

Così l’arco costituzionale si è trovato in gran parte d’accordo in maniera trasversale, anche Alberto Balboni di Fratelli d’Italia all’estremo opposto ha tenuto la stessa linea: «Siamo un partito patriottico e la Costituzione si rispetta tutta».

Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 stelle, aveva anticipato che loro avrebbero votato contro: «Gli elementi non sono sufficienti», ha detto la senatrice Maria Domenica Castellone dichiarando il no in Aula: «L’etica è rendere conto del proprio operato agli elettori». No anche da parte di Liberi e uguali.

Il discorso di Renzi

Renzi intervenendo prima del voto ha assicurato che la verità non è virale, e citando gli argomenti social della giornata, dal “World Thinking Day” celebrato dagli scout al giorno palindromo, 22-02-2022, ha dato la sua versione sull’indagine parlando per oltre 20 minuti. 

Prima ha ricordato che la Cassazione ha annullato per la tre volte dei sequestri, senza specificare che si trattava dei sequestri subiti dall’imprenditore Marco Carrai, sempre nell’ambito dell’inchiesta sulla fondazione Open, ma che non riguardano quelli arrivati al vaglio del Senato.

Poi ha detto che l’inchiesta «non è sui soldi, ma su che cos’è un partito e cosa non è». La procura, si legge nelle carte, ha individuato la destinazione del denaro nei «renziani» perché secondo i pm arrivavano soldi ai politici non dichiarati come tali tutti vicini all’ex premier. Il leader di Italia viva ha continuato a indicare il processo come politico, sia per le testimonianze degli ex colleghi del Pd, sia per l’oggetto.

La giustizia ha detto «è uguale per tutti», «per politici e magistrati». Renzi ha ricordato così di aver denunciato i pm che hanno chiesto il rinvio a giudizio: «Una questione di civiltà». E si è rivolto a chi ha votato no al conflitto di attribuzione: «Vi auguro che quello che è accaduto a me non accada a voi».

Renzi ha fatto ancora riferimento all’anniversario di Tangentopoli. La «guerra dei trent’anni» ha detto facendo riferimento al 1992, quando partì il processo Mani Pulite sul sistema di finanziamento della politica attraverso le tangenti. Da allora i decenni hanno visto «la magistratura e la politica fare una battaglia dura», ma oltre a loro, ha concluso Renzi, «a una riflessione collettiva non può non partecipare la stampa».

La giunta

La replica di Renzi ai pm è partita a fine 2020: aveva mandato autonomamente una lettera ai pm per avvertirli che avrebbe portato avanti le sue prerogative da Senatore e alla fine dell’anno scorso ha chiesto l’intervento di palazzo Madama scrivendo alla presidente Elisabetta Casellati.

La richiesta ha riguardato nello specifico una chat con l’imprenditore Vincenzo Manes del 3-4 giugno 2018, quando Renzi era già senatore, delle e-mail e i dati relativi del suo conto corrente finiti negli atti dell’indagine. I messaggi tra Renzi e Manes avevano come tema un viaggio dell’ex premier a Washington, che sarebbe stato poi pagato dalla fondazione Open 135mila euro.

Per il senatore, sarebbero state violate le prerogative costituzionali da parlamentare che prevedono l’autorizzazione della camera di appartenenza per l’acquisizione di materiale, le perquisizioni e le intercettazioni e la corrispondenza. Qualora venissero prese in forma indiretta o casuale, possono essere approvate in maniera successiva.

In questo caso, secondo la relatrice in giunta in suo favore. Fiammetta Modena, «ritenendo che il messaggio scritto su WhatsApp rientri pleno iure nel concetto di “corrispondenza”».

L’ex presidente del Senato, Piero Grasso (LeU), che ha votato contro il conflitto di attribuzione, ha obiettato che non solo su whatsapp non è corrispondenza – come rilevato dalla Cassazione -e ha ricordato che i messaggi sono stati reperiti non dagli invii di Renzi, ma da quelli ricevuti da Manes, e infine che era la prima volta che a Palazzo Madama si provava a intervenire alla chiusura delle indagini e non al momento del rinvio a giudizio. Per Grasso «si tratterà di un importante precedente».

La procura

La procura il 9 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio per l’ex premier Renzi e altri dieci indagati: tra loro anche l’ex ministra oggi parlamentare di Italia viva, Maria Elena Boschi, l’ex ministro e deputato Pd, Luca Lotti, l'ex presidente di Open Alberto Bianchi e l'imprenditore Marco Carrai.

Oltre a loro, gli imprenditori che hanno versato cifre ingenti nelle casse della fondazione che beneficiavano le iniziative di Renzi e del giglio magico: Patrizio Donnini, Alfonso Toto, Riccardo Maestrelli, Carmine Ansalone, Giovanni Caruci, Pietro Di Lorenzo.

Agli indagati vengono contestati a vario titolo i reati di finanziamento illecito ai partiti, corruzione, riciclaggio, autoriciclaggio, traffico di influenze. Coinvolte nel procedimento anche quattro società. L'udienza preliminare si terrà il 4 aprile prossimo.

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