«Conte non è in discussione» ma serve un nuovo «contratto di governo» per decidere come affrontare – e chiudere – i dossier Mes, Autostrade, ex Ilva, legge elettorale, con conseguente «rafforzamento» della squadra di governo. A due settimane dal non entusiasmante risultato alle regionali, Matteo Renzi riprova a dare le carte sul tavolo della maggioranza. Lo fa da una paginata del quotidiano La Repubblica, come ai vecchi tempi. Perché c’erano tempi in cui le sue proposte piombavano sulla politica e sparigliavano. Cambiavano il corso degli eventi. Così andò nell’estate del 2019, dopo la crisi ferragostana del governo gialloverde quando, abbandonato il sacchetto di pop corn, propose l’alleanza con i Cinque stelle, fin lì considerati alleati strategici della Lega e nemici irriducibili della democrazia liberale.

Oggi l’ex premier non è più in quella forma smagliante: sostiene di aver preso il 5,1 per cento alle regionali e cioè «il doppio di quello che ci davano i sondaggi», ma a rifare i calcoli – e cioè a contare i voti assoluti e non le percentuali – nelle sei regioni alle urne arriva al 3,18 per cento, nel cui calderone va anche messo il fatto che in Toscana Iv si presentava con +Europa e Azione (Calenda), e che la sua lista ligure coincideva con quella del presidente, lo sfortunato professore Aristide Massardo (che ha portato a casa un pallido 2,72 per cento). La proiezione di queste cifre su scala nazionale non sarebbe una cosa seria, ma certo nulla al momento autorizza i renziani a sperare risultati più confortanti.

Così nel paese reale. In parlamento però la realtà di Italia viva è molto più che aumentata: lì Renzi oggi ha trenta deputati (uno è appena rientrato nel Pd) e soprattutto diciotto senatori, che a Palazzo Madama fanno la differenza. E’ in forza di questo che l’ex segretario dem dà un “consiglio” all’attuale segretario: rafforzi la squadra di governo: «La questione riguarda soprattutto la leadership del Pd. Se il segretario Zingaretti accettasse di entrare al governo, o al limite il vicesegretario Orlando, la maggioranza sarebbe più forte».

Dai vertici del Pd queste parole ricevono apprezzamento. «E’ un bene che finalmente tutti seguano le cose che dicevamo», è il commento che filtra dallo stretto giro di Zingaretti mentre nel pomeriggio si prepara per la trasmissione Che tempo che fa, dove andrà in serata, «e cioè che serve un governo che faccia le cose, in cui si sta insieme da alleati e non da avversari». L’impressione è che sia definitivamente chiusa la stagione delle velleità, quando Renzi minacciava di svuotare il Pd per proporsi come perno del «riformismo italiano». «Ora anche lui ammette che le carte le dà il Pd». Quanto al rimpasto, viene spiegato, «come abbiamo sempre detto, non abbiamo mai chiesto posti. Decidono Conte e il presidente della Repubblica».

Il rimpasto impossibile

Ma Renzi sa che la proposta di rimaneggiamento dell’esecutivo è irricevibile. Il premier l’ha già esclusa all’indomani delle regionali: «Io non avverto assolutamente l’esigenza di un rimpasto». Con i Cinque stelle in via di implosione, il quadro della maggioranza è troppo instabile per cambiare qualche ministro (o ministra) senza rischiare una reazione a catena con esiti imponderabili. Peraltro un eventuale governo Conte Tre – di questo si tratterebbe – dovrebbe passare per il Colle e poi tornare al voto di fiducia del parlamento: una strada rischiosa. Anche per questo Zingaretti, che pure è stato tentato dall’ipotesi di entrare al governo per rendere più incisiva l’azione del Pd, giudicata troppo tiepida, ha archiviato l’idea. Oltretutto aprirebbe un baratro nella regione Lazio, dove la destra è forte e non c’è neanche l’ombra di un candidato a sostituirlo.

Sul fronte di governo e parlamento, nelle prossime settimane arrivano scadenze cruciali: lunedì sera, con una settimana di ritardo, il consiglio dei ministri approverà la nota di aggiornamento al Documento di programmazione economica, la Nadef (subito dopo dovrebbe esserci il varo del decreto sicurezza). A metà ottobre a Bruxelles andranno inviate le linee guida programmatiche del Recovery fund e quelle della nuova legge di bilancio. Poi nelle camere inizia la sessione di bilancio. A cui seguirà, a stretto giro, la definizione dei progetti del Recovery Fund. Di qui in avanti immaginare di cambiare qualche ministro, fatto in sé auspicabile, senza mettere in fibrillazione Palazzo Chigi è pura accademia, ipotesi di scuola senza principio di realtà (anche per questo è incomprensibile la voce di una possibile corsa al Campidoglio del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: accredita l’ipotesi della caduta del governo).

A meno che la proposta dell’ingresso di Zingaretti nell’esecutivo («o al limite di Orlando» chiosa Renzi con poca eleganza, ma lo sgarbo non raggiunge il vicesegretario dem che ieri era a Minsk a partecipare alla marcia dell’opposizione a Lukashenko) non sia il suggello di un asse politico con i leader della coalizione – per M5S il riferimento dei ‘governisti’ è Luigi Di Maio, per Leu il ministro Roberto Speranza – per condizionare il premier, accusato di immobilismo un po’ da tutti i vertici della coalizione, e spingerlo a portare avanti l’azione di governo. Con meno personalismo e più considerazione della maggioranza.

Una ministra per Iv

C’è un’altra ipotesi: che Renzi pensi a sé, come da indole e da tradizione della sua parabola politica. E a questa ipotesi autorizza il suo sì allo sbarramento al 5 per cento nella legge elettorale. Obiettivo ormai inimmaginabile per Italia viva. Ma che diventa irrilevante se la prospettiva è il lento rientro nella casa dem. Con una collocazione fuori dai giochi per lui stesso: un ruolo da segreterio generale della Nato, di cui Domani ha già riferito. A domanda diretta di Repubblica la risposta non è un no secco, come di chi non vuole indebolire il suo partito già alla sopravvivenza; ma «quest’ipotesi non è sul tavolo». L’ipotesi non è sul tavolo, ma lui la lascia circolare. E un ministro, magari alla Difesa, come Ettore Rosato, o una ministra come Maria Elena Boschi, che andasse a caldeggiarla sui tavoli dei paesi alleati sarebbe una chance per l’exit strategy di un leader che voleva “cambiare verso” al Pd, poi spaccarlo, poi prosciugarlo, poi ha scritto un libro che si intitolava “Avanti”. Ma alla fine si è accorto di aver sbagliato strada.

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