Valditara senza metodo: quel rapporto dozzinale sulla violenza di genere

Ci sono dei dati che il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha citato spesso nell’ultimo anno per indicare che nelle scuole secondarie di primo grado sono state fatte moltissime iniziative contro la violenza di genere: «Ben il 96,7 per cento, la quasi totalità delle scuole, ha avviato percorsi di educazione e rispetto nei confronti della donna», aveva dichiarato per esempio durante la presentazione del report dell’Istat sul “Bullismo e cyberbullismo nei rapporti tra i ragazzi” a Palazzo Chigi, lo scorso 26 giugno. Un adolescente su cinque vittima di bullismo. Per il governo l’unica soluzione è la famiglia Quel dato citato da Valditara però non era contenuto nel rapporto Istat, che si riferisce al 2023, ma proveniva da un’indagine effettuata dal ministero dell’Istruzione di cui però non erano mai stati resi pubblici i risultati. Almeno fino al 10 novembre, quando sul sito del ministero è comparso un documento pdf di otto slide con dati e grafici di una “indagine” svolta tra il 15 e il 29 maggio 2025 nelle scuole secondarie di secondo grado “di tutto il paese”. Come riportato nel documento, hanno risposto 2322 scuole statali, pari all’86,7 per cento del totale delle scuole secondarie di secondo grado, e «quasi il 97 per cento ha avviato attività specifiche per sensibilizzare al rispetto delle donne e per educare alle relazioni, così come previsto dalle nuove Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica». Il famoso 96,7 per cento citato da Valditara. Elementi critici Ma questa indagine presenta diversi problemi: «Che molte scuole italiane siano attive sul tema è una cosa buona, ma da questi dati sappiamo pochissimo di che cosa sia stato fatto davvero», ha commentato a Domani la psicologa sociale Chiara Volpato, autrice di vari libri, tra cui Psicosociologia del maschilismo (Laterza 2022), e parte del comitato scientifico della Fondazione Cecchettin. Infatti, uno dei primi elementi critici riguarda le definizioni di «attività per il contrasto alla violenza contro le donne». Il documento non chiarisce cosa il Ministero consideri valida come attività che rientra in questo ambito: può essere un’ora di lezione, un seminario, una mostra, un compito in classe, un incontro con esperti, o anche solo un minuto di silenzio per una vittima di femminicidio. Senza una definizione comune, confrontare i dati tra regioni o scuole diventa quasi impossibile, così come capire quanti sono gli studenti coinvolti. «Da questi dati non sappiamo se l’attività è stata fatta in una sola classe da venti studenti o in tutto l’istituto. O se si tratti di progetti che le scuole avevano già attivato o di iniziative nuove legate al Ministero. Sono informazioni fondamentali che qui mancano», continua Volpato. Molto ampia è anche la categoria “Altro”, che raccoglie più attività di tutte le altre messe insieme. Senza una descrizione qualitativa, non è chiaro di cosa si tratti: attività sporadiche? Iniziative strutturate? Progetti interdisciplinari? Educazione sessuo-affettiva, Valditara attacca le opposizioni: «Sfruttate i femminicidi. Vergogna». Scontro in aula Manca del tutto una nota metodologica che dovrebbe fornire tutti gli elementi utili per usare e citare l’indagine come scientificamente valida. Per Giulia Ganugi, ricercatrice in sociologia all’università di Bologna ed esperta di metodologia della ricerca sociale, «non è chiaro se il questionario doveva essere compilato da dirigenti, da insegnanti, da studenti». Il questionario comunque non è presente sul sito e non possiamo sapere come sono state formulate le domande. Ganugi riprende poi il dato secondo cui «il 47,4 per cento delle scuole che hanno partecipato all’indagine ha dichiarato di avere anche buone pratiche da segnalare», ma la ricercatrice si chiede cosa è una buona pratica e quando sia considerata “buona”. «Tutto è molto vago, e quando parli di buone pratiche senza spiegare cosa siano, non stai dicendo niente», concorda Chiara Volpato. Cambiamenti e autovalutazioni Un altro dato caro al ministero è quello in cui si indica che queste attività (che non sappiamo cosa siano) abbiano portato dei “cambiamenti”: il 68 per cento delle scuole afferma di aver notato «cambiamenti nei comportamenti degli studenti». Ma non viene spiegato come questo cambiamento sia stato misurato: «La tabella sul cambiamento non ci dice nulla: come hanno raccolto quei dati? Su quale base si parla di un cambiamento positivo? Non puoi dire che c’è stata una diminuzione di bullismo o di violenza di genere se non hai una rilevazione precedente, fatta con gli stessi metodi. Chiedere semplicemente “diteci se c’è stato un cambiamento” non ha alcun valore», insiste Volpato. Niente sesso, siamo studenti. Ma educare non è negare la complessità Le informazioni raccolte sono inoltre basate su autovalutazioni delle scuole, e «le risposte potrebbero essere state influenzate dal fatto che le domande arrivavano direttamente dal datore di lavoro», sottolinea Ganugi. Secondo la ricercatrice «per stabilire se una scuola ha raggiunto davvero una maggiore inclusione, rispetto e consapevolezza su questi temi, sarebbe imprescindibile il parere degli studenti e degli insegnanti e che entrambi questi gruppi potessero rispondere in forma anonima e anche al di fuori degli spazi fisici dell'istituto, per non essere condizionati». I dati sulla violenza di genere in Italia sono spesso incompleti, non aggiornati e disomogenei. Come sembra emergere da questo “report”, anche quelli sulle iniziative che la contrastano lo sono. Per Volpato, «che le scuole si sentano coinvolte è un bene, ma per capire se le iniziative funzionano davvero bisogna avere dati prodotti con rigore scientifico».