Ada Prospero Marchesini Gobetti inizia il suo Diario partigiano il 10 settembre 1943 quando Torino è occupata dai tedeschi e la sua casa diventa il punto di incontro di due diverse generazioni intenzionate ad animare la Resistenza. Antifascisti di lungo e medio corso, ragazzi e ragazze ventenni «con occhi caldi di emozione e di decisione» – così li definisce Vittorio Foa – discutono di come organizzarsi, parlano di sabotaggi e di squadre armate, espressioni e termini, ricorda Ada, che nel giro di pochi giorni sarebbero diventati la «normalità quotidiana».

Sono loro, insieme agli ufficiali e ai soldati che dalle caserme prendono la strada della montagna, a dare vita alle prime bande partigiane. Il suo racconto ci restituisce vividamente e quasi simbolicamente il momento in cui uomini e donne scelgono di difendere e di cambiare un paese, oppresso da venti anni di dittatura e sconvolto dalla guerra in corso e dall’occupazione. La presenza di generi e generazioni diverse è resa possibile dal vuoto di potere che si viene a creare dopo l’8 settembre, che aumenta il margine decisionale dei singoli e differenzia questo conflitto da tutti i precedenti, quando a difendere la patria era chiamato esclusivamente il cittadino maschio iscritto nelle liste di leva.

Vecchi e giovani antifascisti

Le generazioni a cui si fa riferimento sono sostanzialmente due. La prima comprende uomini e donne nati per lo più a cavallo fra Otto e Novecento, formatisi politicamente nel primo dopoguerra, iscritti ai partiti dell’Italia liberale e spesso, in conseguenza di questo, costretti durante il fascismo all’esilio, incarcerati o confinati. Alcuni hanno combattuto in Spagna e hanno partecipato alla resistenza francese. Il passaggio dall’antifascismo alla Resistenza è quasi naturale, ma l’appartenenza a uno specifico partito politico è per molti l’elemento identitario predominante.

La seconda include ragazzi e ragazze, nati dopo la Prima guerra mondiale, educati nelle scuole fasciste e approdati attraverso differenti percorsi individuali alla Resistenza. Durante il secondo conflitto mondiale maturano un sentimento di opposizione, spesso genericamente antifascista, un rifiuto nei confronti dello stato di cose presenti percepito principalmente come ingiusto che si traduce dopo l’8 settembre in azione politica, ma non sempre, o almeno non subito, nell’iscrizione a un partito. Sono partigiani, prima che comunisti, azionisti, socialisti, liberali, repubblicani.

La relazione tra questi due mondi non è facile e si sostanzia di sentimenti ambivalenti: il primo vive con una certa insofferenza il confronto con una generazione scarsamente politicizzata, digiuna di ogni pratica clandestina, educata al mito generico di “largo ai giovani!” propagandato dal regime; il secondo diffida di una generazione a cui contesta di non essersi opposta con abbastanza forza a Mussolini, di avere taciuto quanto sapeva, e di conoscere poco, a causa dei lunghi anni di carcere o di esilio, le reali condizioni in cui versa il paese.

Allo stesso tempo gli uni e gli altri provano una certa ammirazione reciproca: i giovani hanno dimostrato di volere garantire un impegno nella lotta e di essere in grado di compiere scelte radicali, dimostrando che il fascismo non è riuscito a “contaminarli”, mentre i più anziani sono oggetto di considerazione per quanto hanno cercato di fare, soprattutto nei casi in cui si sono messi totalmente in gioco e hanno sacrificato alla causa la loro libertà e spesso la loro stessa giovinezza. «Direi che eravamo trattati con rispetto e non collocati solo nel passato», ricorda Vittorio Foa.

I “vecchi” antifascisti rappresentano indubbiamente un importante fattore di aggregazione, così come i militari che mettono al servizio della causa le proprie capacità e la propria autorevolezza: sono figure fondamentali nel dare vita alle prime bande.

Tuttavia le relazioni restano ambivalenti nel corso della guerra: ne è una spia l’insofferenza con cui spesso i giovani subiscono le lezioni dei commissari politici, ruolo che svolgono soprattutto gli antifascisti («di quello che dicevano noi non capivamo assolutamente niente e ci facevano venire un po’ di barba per dire le cose come erano!», ricorda la partigiana Teresa Fenoglio Oppedisano) o la preoccupazione che dopo la guerra tutto potesse tornare come prima: «Nulla si può aspettare dalle generazioni vecchie. Solo noi giovani possiamo fare l’Italia nuova», si legge in un appello dei giovani del Fronte della gioventù.

Di fatto però, al termine del conflitto le contrapposizioni sfumano e i “giovani” partigiani e i “vecchi” antifascisti riconoscono di avere condiviso in quei venti mesi esperienze valoriali ed esistenziali fondamentali.

La “doppia guerra” delle donne

Se il rapporto fra le generazioni è complesso, ancora di più lo è quello fra i generi. L’ingresso delle donne nello spazio pubblico è una rivoluzione che investe tutta l’Europa: in questa militarizzazione globale, le donne, che in molti paesi sono chiamate ad arruolarsi regolarmente, anche se spesso svolgono poi ruoli ausiliari, si dimostrano recettive al modello bellicista e aderiscono numerose alla Resistenza con comportamenti molto simili in diverse nazioni europee.

Invisibili da secoli nello spazio pubblico, nel momento in cui vi accedono possono svolgere ruoli insospettabili all’interno di società ancora rigidamente patriarcali. Inoltre non vengono mandate al fronte e continuano ad abitare i territori occupati: questo consente loro di avere compiti di collegamento fra le formazioni oppure di farsi carico del vettovagliamento e della cura a vari livelli (incluso nascondere prigionieri evasi, ebrei e partigiani).

Alcune scelgono di entrare in banda dove la presenza maschile è schiacciante e la convivenza promiscua. Si tratta di una rottura radicale rispetto al passato. «Dalla tradizione della ragazza in attesa di marito alla trasgressiva esistenza in mezzo a bande di ragazzi in guerra. In guerra noi stesse. C’era stato il capovolgimento del nostro mondo […] una sconfinata libertà stava davanti a noi», ricorda la partigiana Marisa Ombra. Qualunque sia la funzione svolta all’interno della complessa organizzazione resistenziale, per le donne si tratta sempre di combattere una “doppia guerra”: quella di liberazione e quella, trasversale, contro una società che fatica a riconoscere cambiamenti di ruolo.

Durante la Resistenza le donne sono evidentemente necessarie al tipo di conflitto irregolare che si sta combattendo e sono invitate e spronate all’azione, anche se poi nella pratica dei rapporti fra i sessi permangono stereotipi di lungo periodo e devono lottare per essere a fianco e non all’ombra dei compagni o relegate a svolgere mansioni domestiche. Pesa su di loro il giudizio di una società che tende a definirle “deboli e inaffidabili” per natura o “pericolose” per l’attrazione sessuale che suscitano negli uomini. Quest’ultima valutazione grava soprattutto sulle donne che compiono la scelta più estrema, quella appunto di vivere in banda.

Francesco Moranino, comandante della 12ª divisione Garibaldi nel biellese, il 30 marzo 1945 scrive alla partigiana Anna Marengo, che alla Resistenza prende parte attiva con ruoli di responsabilità: «La vita in mezzo agli uomini è tanto dura in quanto si tratta di sradicare tutto un bagaglio di prevenzioni che questi ragazzi ancora conservano nei confronti delle donne». In alcuni casi vi sono partigiani pronti a mettere in discussione questi giudizi, bollandoli come pregiudizi “borghesi”, “fascisti”, “socialdemocratici” o semplicemente riconoscendo alle donne “mirabili riserve di energia” e di coraggio. Tuttavia gli stereotipi restano e riemergono con forza già alla vigilia dell’insurrezione.

Società maschile

La consapevolezza della straordinarietà di questa esperienza è forte nel vivo della guerra, ma sbiadisce immediatamente, travolta dal ritorno alla normalità. Con il 25 aprile 1945 «finiva per noi ragazze la trasgressione», annota sempre Marisa Ombra. Dopo la Liberazione infatti le donne rientrano nello spazio che la società di allora, sostanzialmente ancora tutta declinata al maschile, ritiene “naturale”, quello domestico, il loro ruolo viene progressivamente ridimensionato fino a essere “taciuto”, e ci vorranno molti decenni perché riemerga la memoria del loro impegno e perché le relazioni tra sessi nel privato e nel pubblico comincino realmente a modificarsi.

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