«Una buona parte della nostra vita passa a riempire i vuoti». Che l’intuizione di Sartre abbia dei riscontri anche sul piano politico è stata la tesi di una letteratura psicoanalitica e filosofica importante, che va da Freud, passa per Reich e Deleuze, e arriva fino ai giorni nostri.

In un suo lavoro del 2019 (Le nuove melanconie), Massimo Recalcati rilegge la vicenda del berlusconismo e del salvinismo come due illusioni della “clinica del vuoto”. Nel primo caso, l’illusione di riempire il vuoto con un oggetto che viene dal di fuori, quello che l’autore chiama «l’iperedonismo del discorso del capitalista», con tutta la coreografia para-sessuale che le è propria. Nel caso del salvinismo, invece, la pulsione paranoica securitaria: «l’irrigidimento del confine», che «esaspera il confine come nuovo oggetto pulsionale».

Per Recalcati c’è una certa contiguità tra i due fenomeni clinici. Scrive: «La nuova cultura securitaria veste di nero gli abiti di paillettes ormai sfatti del berlusconismo». C’è in entrambi i casi l’ossessione – chiaramente più subcosciente che cosciente – di esorcizzare il vuoto: in un caso, riempiendolo a forza; nel secondo caso, proiettando la paura sul nemico che preme al confine.

Negare il vuoto

È un peccato che Le nuove melanconie di Recalcati si fermino a Salvini e non arrivino alla destra di Meloni, che del salvinismo conserva senz’altro la pulsione securitaria, ma che non si esaurisce qui. Senza voler e poter fare una riflessione neanche vagamente scientifica, ma solo per divertissement, si può immaginare che la destra di Meloni sia una variante ancora diversa nel ventaglio possibile, in cui il vuoto non è esorcizzato, ma è negato in radice, tramite la pretesa ipertrofica di occupare tutto lo spazio, negando in definitiva la legge della castrazione: «Questo no».

Tale fenomeno clinico era senz’altro presente nel fascismo. Le parole di Gentile nel 1932 sono chiarissime sotto questo profilo: «Per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo». Tutto è assorbito dal regime, ed è così risolto il “problema” del vuoto.

Ossessioni

Lungi dal voler fare parallelismi, l’occupazione ipertrofica dello spazio con la conseguente negazione del vuoto della destra di Giorgia Meloni ha comunque diverse manifestazioni sintomatiche, di cui ci si limita qui ad individuarne almeno tre.

La prima è la dichiarata coscienza di occupare quello che era avvertito come un vuoto politico. C’è qui tutta la retorica revanscista di chi a lungo è stato escluso dall’arco politico costituzionale – per la sua indisponibilità ad una piena accettazione dei valori democratici, beninteso – e ora tenta di imporre una deresponsabilizzante pacificazione.

Il secondo fenomeno che qui interessa è l’ossessione penale della destra italiana, che tende a risolvere ogni vuoto di protezione sociale con una politica criminale acefala. Il proliferare di nuove ipotesi di reato e l’inasprimento dei regimi sanzionatori già esistenti è il fallimento di una classe politica che si illude di poter controllare tutta la realtà – senza vuoti, appunto.

Questa illusione di controllo emerge chiaramente, del resto, anche nell’approccio della maggioranza politica alle questioni familiari: nell’iper-protezione della famiglia patriarcale; nelle disordinate misure a favore della procreazione naturale; e così via. D’altra parte, «la protezione della famiglia, cioè della famiglia autoritaria e con prole numerosa, è il primo imperativo di ogni politica culturale reazionaria» (W. Reich, Psicologia di massa del fascismo).

Senza tentennamenti

E poi, la terza manifestazione sintomatica dell’occupazione ipertrofica dello spazio nella nostra destra è la sua eccitazione per formule di presidenzialismo diversamente declinate, o comunque di legittimazione diretta del capo, che ricorre come fil rouge in tutta la sua storia, dall’inizio della Repubblica ad oggi.

Si tratta di un progetto che, lungi dall’avere contorni chiari (o almeno chiariti), appare semplicemente orientato all’occupazione di ogni spazio della capacità di decisione politica, secondo qualunque stilema questo si realizzi, negando l’esistenza di un vuoto sottratto da meccanismi istituzionali di resistenza.

È il disegno di annullare quei «tentennamenti» che, secondo la bella espressione dello psicanalista Christopher Bollas, rallentano sì il processo decisionale, ma costituiscono il cuore della vita democratica, volta a «contenere e tollerare tutti i propri elementi divergenti, in modo che nulla sia eliminato» (L’età dello smarrimento).

Lo spavento irrazionale

Il dramma è che questa “clinica del vuoto” – al pari di quella berlusconiana e salviniana prima – è incredibilmente attrattiva, almeno sul piano degli istinti. Lo è perché risolve nel modo più elementare e radicale «l’eccitamento impadroneggiabile della vita» (è ancora Recalcati) rappresentato dal vuoto e dalla sua difficoltà a gestirlo. Le tre narrazioni qui segnalate – il revanscismo, la bulimia penale, il presidenzialismo – sono formule che convincono perché sono formule semplici, immediatamente comprensibili.

Nella seconda metà del XIX secolo, Walter Bagehot spiegava così il senso della monarchia in Inghilterra: «La ragione principale per cui la monarchia è una forma di governo solida sta nel fatto che si tratta di un sistema comprensibile». E più avanti: «Poiché il cuore umano è forte e la ragione debole, la monarchia è salda perché si appella al sentimento diffuso e la repubblica lo è poco perché fa appello alla comprensione razionale» (La Costituzione inglese).

Forse, ai tempi di Carlo III, la monarchia non è più tanto comprensibile, ma la logica resta, e l’impressione è che la proposta della nostra destra conquisti così facilmente consensi proprio per questo: perché si appella non alla comprensione razionale, ma allo spavento irrazionale che prende davanti alla natura indomabile della realtà.

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