Il precedente, andando indietro con la memoria, si potrebbe ritrovare nel 1997. C’era il governo Prodi I, il primo partito era il Pds, il secondo il Ppi, e poi il resto della maggioranza era sbriciolata in dieci sigle più l’appoggio esterno di Rifondazione comunista. Quell’anno, prima della drammatica rottura del 1998, l’allora segretario di Prc, Fausto Bertinotti, aveva pubblicato un libro-intervista con Alfonso Gianni, suo storico collaboratore, titolato Le due sinistre.

Spiegava che c’era una sinistra di governo e di lotta, e una di lotta e di governo – la sua – «l’una antagonista, l’altra moderata», «i neocomunisti che aspirano a ricercare l’alternativa all’attuale modello sociale, il partito della Quercia che vuole governare lo sviluppo». Le due sinistre, diceva, non escludono momenti di convergenza ma per lo più si combattono «per l’egemonia». La vita e soprattutto la morte di quel primo centrosinistra è storia nota.

Sono passati trent’anni e, cambiate le cose da cambiare, cioè innanzitutto i partiti, la sinistra sembra ancora inchiodata più o meno a una simile linea di frattura. Oggi le opposizioni alla destra sono, sulla carta, maggioritarie nel paese, ma sono attraversate da una faglia, una sottile linea rossa che passa anche dentro il Pd di Schlein: c’è un potenziale centrosinistra moderato e oggi diremmo riarmista, e un altro potenziale centrosinistra radicale, se non antagonista e disarmista, di certo pacifista seppure a diverse intensità. Oggi come allora le due parti sono lontane e irriducibili l’una all’altra. La comune difesa del Manifesto di Ventotene, più in parlamento che in piazza, non ha accorciato le distanze.

La manifestazione dei M5s del prossimo 5 aprile, con gli inevitabili eccessi da piazza, non aiuterà. Ma la novità di questo giro è che nel centrosinistra a essere maggioritaria, e in un certo senso più omogenea, è la parte più radicale. Questa almeno è la teoria spiegata martedì a La7 dal deputato verde Angelo Bonelli, mentre parlava delle tensioni della destra sulla politica estera, e chiedeva alle opposizioni di prepararsi: «Riconosco come un passo avanti significativo la posizione assunta dalla segretaria del Pd Elly Schlein per la costruzione di un’alleanza futura. Alleanza verdi e sinistra, il Movimento 5 stelle e il Pd condividono una posizione comune contro il piano di riarmo proposto da Ursula von der Leyen».

Il 41 per cento (in tre)

Angelo Bonelli a Domani spiega meglio: «Pd, M5s e Avs sono il nucleo centrale di un’alleanza, che va certo allargata. Ma queste tre forze sono la base da cui partire. Insieme facciamo il 41 per cento, contro il 48 delle destre». Si riferisce all’ultimo sondaggio Swg, datato 24 marzo, che attribuisce ai dem il 22,3 per cento, ai Cinque stelle il 12,2 e ai rossoverdi il 6,2.

Anziché dilaniarsi sul ruolo dei vari piccoli centri (Azione, Iv, teoriche e impalpabili reti cattoliche), «non si può che partire da queste tre forze, che oltre alle tante battaglie unitarie in parlamento, ora hanno almeno un punto comune in politica estera». Ricomincio da tre, dunque. Per Bonelli le tre forze dovrebbero stringere «un’alleanza dinamica», «in cui ciascuno è libero di fare la sua parte», a patto di essere d’accordo sul «punto di caduta: la coalizione».

Il guaio è che questo patto non c’è. Giuseppe Conte ha fatto sapere in ogni modo che non formalizzerà alleanze prima della vigilia del voto politico, per non perdere i consensi più radicali. E dal canto suo Elly Schlein non intende convocare nessun tavolo, né pubblico né riservato – è certa che la notizia filtrerebbe – per paura di innescare inutili polemiche interne.

Peraltro all’ordine del giorno del Pd c’è un «chiarimento» sì, ma interno, proprio sulla politica estera. Circola – nell’area Schlein ma anche in quella della minoranza – persino l’idea di un azzeramento della segreteria e della sua ricostituzione non più “unitaria”, cioè senza la minoranza riformista. Va detto che il «comune no al piano di riarmo» non è, anche per i più vicini alla segretaria Pd, una garanzia di omogeneità con M5s e Avs: «Serve un chiaro sì comune alla difesa europea».

Riformisti in Azione

Dall’altro lato dell’opposizione, quello “riarmista”, si intravedono movimenti sotterranei. L’ala riformista del Pd ha ormai preso voce contro la linea della segretaria ed è rassegnata all’alleanza con M5s, per pure questioni di aritmetica, ma solo a patto di un bilanciamento centrista. Questo weekend a Roma, intanto, si celebra il congresso nazionale di Azione. Sabato mattina dal palco del Rome Life Hotel interverrà Giorgia Meloni.

Fra gli invitati, spiccano tre nomi di peso della minoranza Pd: Pina Picierno, invitata nella veste di vicepresidente del parlamento europeo, Lorenzo Guerini, presidente del Copasir, in un panel sulla difesa, e l’ex commissario europeo Paolo Gentiloni, che per Calenda è il «presidente del Consiglio» dei desideri. Interverrà anche il capogruppo al Senato dei dem, Francesco Boccia, ma è inutile girarci intorno, i primi tre sono le punte di diamante del Pd riformista e dell’ala “riarmista” che nei prossimi voti del parlamento europeo proverà a risegnalare le distanze dalla linea Schlein.

Calenda cercherà di convincerli ad alzare la voce nel loro partito per scaricare il M5s. Del resto è la parte dem che non solo accusa il M5s – come fa Picierno – di «lucrare consensi» con il pacifismo, ma anche la segretaria, con le sue critiche al ReArm Eu, di isolarsi dal Pse.

Da questo stesso lato delle opposizioni, c’è +Europa, e anche Matteo Renzi che si fa concavo e convesso per restare alla ruota del Pd. In ogni caso, l’aritmetica è spietata: il 3,6 per cento di Azione, con il 2,4 di Iv e l’1,8 di +Europa ––secondo lo stesso sondaggio Swg – sfiora l’8 per cento. Anche sommato alle percentuali dem, si arriva al 30 per cento o poco più. Un gruzzoletto di voti troppo scarso per essere il nucleo di un centrosinistra alternativo all’altro centrosinistra.

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