Dimenticarsi il Giancarlo Giorgetti versione manovra economica, pronto a incassare colpi a destra e manca. Addirittura ha subito qualche colpo basso dal suo partito. Matteo Salvini squadernava sul tavolo richieste irrealizzabili su pensioni e fisco, prontamente espunte dalla lista delle misure fattibili da Giorgetti. Ma impassibile con lo stile di chi prendeva tempo ed evitava scontri frontali.

Il ministro dell’Economia ha cambiato pelle. Via i panni ministeriali e ha ed ecco quelli del leghista, anzi del salviniano d’antan. La foto in cui si sono fatti immortalare d’intesa e sorridenti è un pezzo della strategia comunicativa, orchestrata dallo staff di Salvini.

Sarà l’aria da congresso con un finale già scritto – la riconferma del vicepremier – ad aver risalvinizzato Giorgetti, che non vuole certo apparire come un competitor in questa fase. Fatto sta che la questione ha ricadute sui rapporti nel governo.

Giorgetti disarmista

Il niet di Giorgetti sulla strada del riarmo parte dal Mef di via XX Settembre e riecheggia fino a palazzo Chigi, dove Giorgia Meloni e i suoi fedelissimi sono preoccupati. Si domandano fin dove voglia spingersi il titolare dell’Economia.

Due frasi sono state interpretate come una bocciatura del ReArmEu, sostenuto da Fratelli d’Italia e ancora di più da Forza Italia: «Gli 800 miliardi di euro sono solo un titolo» e «bisogna pensarci bene prima di parlare di debito (per la difesa, ndr)», ha scandito Giorgetti davanti alla platea leghista della kermesse organizzata ad Ancona.

Con l’aggiunta al vetriolo: «Che improvvisamente si scopra che si devono spendere valangate di miliardi facendo debiti per la difesa è singolare. La guerra ucraina c’è da tre anni». Viste le premesse, è difficile immaginare un lasciapassare all’apertura dei cordoni della borsa per potenziare gli armamenti in dotazione all’esercito.

La presidente del Consiglio ha già avuto delle interlocuzioni sia con Giorgetti che con Salvini per affrontare la vicenda, auspicando toni bassi e nessuna fuga in avanti sulle polemiche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Dalle parti di Bruxelles, però, la rotta è stata tracciata da Ursula von der Leyen, che ha inserito la sfida della difesa in cima all’elenco delle priorità. Meloni può mettere dei paletti alla presidente della commissione fino a un certo punto. Per questo sta cercando una forma di convergenza sulla proposta del ministro dell’Economia: incentivare la spesa dei privati, evitando esborsi pubblici.

L’inquietudine dentro Fratelli d’Italia si tocca con mano negli ambienti parlamentari e giunge fino ai vertici del partito. Provoca infatti perplessità l’ennesima metamorfosi di Giorgetti, che stavolta potrebbe non essere solo un riposizionamento strategico in ottica congressuale, ma un passo in avanti verso lo spostamento a destra, sempre più marcato, deciso da Salvini.

Ci sono poi le convinzioni personali che rappresentano un macigno irremovibile. «Giorgetti è pragmatico su tutto, ma dopo il Superbonus (che ha giudicato radioattivo, ndr) non si può parlare di nuovo debito che subito si irrigidisce», raccontano fonti a contatto con il ministro dell’Economia su vari dossier.

La salvinizzazione di Giorgetti viene vista con un certo fastidio anche sui rapporti con l’Europa, a cominciare da Berlino, per quanto in fondo Meloni condivida il discorso di fondo, senza poterlo ammettere: «Le regole sono scritte in inglese e pensate in tedesco», è uno degli affondi più duri che il ministro dell’Economia ha riservato alla Commissione europea.

Musica per le orecchie di Salvini, reduce dagli insulti a distanza rivolti al presidente francese Macron, ma una provocazione troppo sapida secondo gli alleati al governo. In testa Meloni. Il governo italiano sta cercando di capire le possibilità di dialogo con l’esecutivo di Merz. «Se anche Giorgetti inizia a fare così, diventa difficile tutto», è il senso dei discorsi che circolano tra i meloniani, riferiti a Domani.

Più condono che taglio

Il problema non è solo il riarmo. La questione si sposta sulle politiche economiche e fiscali interne. Meloni ha dettato la linea: «Dobbiamo abbassare le tasse al ceto medio».

Giorgetti, invece, ha allietato la fan base di Salvini rilanciando l’idea del condono fiscale, la rottamazione delle cartelle, misura che secondo le stime costerebbe circa cinque miliardi di euro, sebbene fonti leghista abbiano bollato questa cifra come «un’esagerazione di chi non vuole la pace fiscale». Per ora c’è uno stallo alla messicana.

L’abbattimento del secondo scaglione dell’aliquota Irpef, fino a 60mila euro di reddito, è l’ennesimo intervento Godot. Si attende da tempo, ma non arriva mai, nonostante il segretario di Forza Italia, Antonio Tajani, avesse chiesto un segnale già nell’ultima legge di Bilancio. Sono trascorsi tre mesi e al Mef non si muove foglia.

La Lega da parte sua sta spingendo con forza la rottamazione delle cartelle. Uno dei più attivi è Alberto Gusmeroli, tra i punti di riferimento per il fisco nella Lega e presidente della commissione Attività produttive alla Camera. «La proposta è stata vista e va avanti: 120 rate mensili», ha scandito in varie occasioni. Il testo è depositato in parlamento.

Insomma la lite sulle spese per la difesa tra Meloni e Giorgetti, raccontata dal Foglio, è stata smentita da palazzo Chigi in maniera repentina, mentre Giorgetti ha fatto ricorso alla più ruspante formula: «Tutte balle». Ma le distanze ci sono. E quelle sono difficili da smentire.

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