L’impresa di reclutare i professori universitari. Quello che manca alla riforma Bernini

Una delle famose freddure Giulio Andreotti sosteneva che i «pazzi» si distinguessero in due categorie: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che si proponevano di risanare le Ferrovie dello stato. Alla lista qualcuno aggiungerebbe volentieri una terza categoria più attuale: quella di chi vuol creare in Italia un sistema duraturo, pulito ed efficiente di reclutamento dei professori universitari. Negli ultimi quarant’anni, o forse più, si sono succeduti, in vesti legislative diverse, una decina di metodi, senza un momento di pace. La cosiddetta riforma Gelmini (in vigore dal 2010, da sempre invisa a tutto il popolo delle università) ha creato l’ultimo di questi, la cosiddetta Abilitazione scientifica nazionale (Asn), ancora in vigore, che non ha soddisfatto nessuno. La riforma Bernini sui docenti, cancellare il sistema dell’Asn è solo un ritorno al passato La riforma Gelmini L’Asn funziona come segue. Una commissione di professori, in carica per due anni (rinnovabili), esamina i candidati che abbiano presentato un certo numero di pubblicazioni e prodotti scientifici e decide se abilitarli o no a insegnare come associati o ordinari. L’abilitazione, si badi, non è un posto, ma è solo un diploma di capacità, come prendere una patente senza aver l’automobile. Ottenuta l’abilitazione (inizialmente della validità di quattro anni, portati poi, per effetto di enormi pressioni, a sei, a nove, infine, esagerando di molto, a dieci anni), gli abilitati possono presentarsi a questa o quella università che bandisca un posto, sottoponendosi a un concorso locale. L’iter è dunque in due fasi: una nazionale e una locale. Nei dodici-tredici anni della sua storia, l’Asn ha così abilitato circa trentaduemila persone, il che potrebbe sembrare un buon risultato. Ma ha anche combinato una quantità di guai a cui non sarà facile porre rimedio. Basti dire che uno stesso candidato può essere abilitato nello stesso momento (e con la stessa commissione) tanto ad associato quanto a ordinario, più o meno come sarebbe se un ufficiale fosse contemporaneamente promosso capitano e colonnello! Inoltre, le valutazioni sono state a volte un po’ frettolose, visto che nella massa degli abilitati – per quel che ho potuto vedere per anni negli ambiti che mi sono familiari – compaiono sia persone di talento che gente seriamente e notoriamente inadeguata. L’inefficienza del meccanismo risulta anche, indirettamente, dall’enorme quantità di ricorsi al Tar che l’Asn ha generato. Affitti in nero e case sovraffollate: studiare a Roma non è mai stato così difficile La riforma Bernini È da vari giorni in discussione alla commissione Cultura del Senato un disegno di legge proposto dalla ministra Anna Maria Bernini che sopprime l’Asn proponendo un metodo di reclutamento che si vorrebbe più efficiente. Siccome Domani ha già pubblicato vari interventi su questo tema, mi limito a richiamare i punti principali della proposta. I candidati autocertificano il possesso dei requisiti (che saranno stati definiti dall’Anvur, la potente Agenzia per la valutazione della ricerca) che attestino che possono candidarsi al reclutamento (pubblicazioni o progetti, organizzazione di congressi o presentazione di relazioni, esperienze presso centri qualificati, continuità della ricerca, premi ottenuti ecc.). Si crea così una lista di potenziali meritevoli, ma “autocertificati”. Se un’università intende bandire un posto per un determinato ambito di ricerca, forma una commissione (di cinque membri per i professori, di tre per i ricercatori) che valuti gli “autocertificati” che avranno fatto domanda per quel posto. La commissione chiama i candidati a un colloquio sul proprio curriculum e può anche chieder loro di tenere un seminario pubblico per comprovare le proprie capacità. A questo meccanismo di base vanno aggiunti alcuni dettagli non irrilevanti. Il più interessante è questo: i vincitori di posto non potranno stare a girarsi i pollici, perché la loro operosità verrà valutata ogni due anni. Gli atenei che avranno assunto i professori più operosi riceveranno una quota premio in aggiunta al finanziamento ordinario. Dopo cinque anni di servizio i professori e i ricercatori possono chiedere il trasferimento in un’altra università in cui siano graditi. Delle commissioni non potranno far parte docenti che abbiano avuto valutazioni negative, che siano stati condannati ecc. Università, il disegno di legge che penalizza giovani e ricercatori dalle carriere non lineari Atenei virtuosi? Il meccanismo è semplice e idealmente sensato. Benché non sia un fan né della ministra Bernini né, tantomeno, del suo governo, mi pare onesto riconoscerlo, anche se mi piacerebbe trovare nel ddl alcune cose che non vedo: per esempio, una più chiara separazione della pista degli ordinari da quella degli associati, e magari un premio da destinare non solo agli atenei più accorti nelle scelte, ma anche ai docenti che li hanno resi insigni. Capisco poco, perciò, la levata di scudi (anche su questo giornale) da parte di quanti rimpiangono la difettosissima Asn, che ha prodotto i guai che ho indicato, e anche altri. Lo spirito di questa riforma è (come spiega il documento di accompagnamento) quello di trasferire ai singoli atenei la responsabilità delle proprie scelte, cioè di esaltare autonomia (garantita dalla Costituzione) delle università. Ma, se (come dice il Vangelo di Matteo) lo spirito è pronto, la carne è debole: quanti atenei saranno tanto virtuosi da chiamare solo gente preparata, seria e attiva, visto che le virtù di ciascuno sono solo autocertificate, e che quelle degli atenei non sono certificate da nessuno? Gli estensori del disegno andranno quindi aggiunti davvero alla lista di Andreotti? Infatti, è ben noto che, accanto a dipartimenti e atenei di alta reputazione, il sistema universitario italiano, sia pubblico sia privato, sia fisico sia telematico, contiene vaste sacche di opacità, e talvolta anche di malaffare, che non assicurano affatto che le virtù cui si appella il disegno di legge saranno uniformemente praticate. Il dl Università fa felici gli educatori, ma non i ricercatori del CNR: «Dal governo solo promesse» Correttivi necessari Sarebbe perciò prudente e opportuno introdurre qualche sfumatura, riguardante non solo gli “autocertificati” ma anche i dipartimenti che volessero chiamarli. Per esempio, si potrebbe differenziare la potestà di assumere secondo la loro reputazione storica, sia scientifica sia etica, secondo le valutazioni ottenute e i crediti accumulati. Del pari, si potrebbero graduare le percentuali degli assunti, limitando il numero degli interni al dipartimento rispetto al totale, con verifiche, poniamo, su base biennale. Si potrebbe anche interdire l’aggregarsi di parenti (genitori, coniugi, prole, generi e cognati ecc.) nello stesso dipartimento o nella stessa area, altro vizio inestinguibile del nostro sistema. Si potrebbe prevedere una categoria di docenti «di valore eccezionale», come si fa in Francia, con stipendio e prerogative speciali. O limare in modo serio l’abusato sistema del «rientro dei cervelli», che ha creato privilegi inaccettabili. Senza complicarsi troppo, il meccanismo si doterebbe così di alcune sicurezze per tenere a freno lo spirito familistico-clientelare che regna da sempre nella nostra università. La riforma di cui ha bisogno l’università italiana è quella della trasparenza