Incontro Rino Formica nella sua casa di Roma, all’indomani delle primarie del Pd che hanno incoronato Elly Schlein segretaria, lo trovo entusiasta, quasi festoso: «La rassegnazione è stata spezzata da una linea di liberazione!». Ha appena compiuto 96 anni, è nato il primo giorno di marzo del 1927: «Se volete dire qualcosa di scabroso fatelo fare a me, da uno che va per i 97». Formica non ama parlare di sé, ma questa volta ha qualcosa da festeggiare. «Quest’anno io celebro una data molto più importante per me. Il 18 novembre faccio ottant’anni dalla mia iscrizione al partito socialista. Partecipai alla fondazione del Partito socialista in Puglia, nella terra liberata. Per me quella è la radice. La cosa fu abbastanza ridicola. Mi presentai alla sezione di Bari che era un deposito in via Andrea Da Bari, all’angolo con via Dante, avevo 16 anni, la commissione nominata di urgenza era fatta più per respingere che prendere gli iscritti. Ne facevano parte Gino Barsanti, autotrasportatore, Anglani, capostazione, uscito dal carcere, Di Marzio, confinato, autoferrotranviere. Presero la mia domanda e mi respinsero. “Tu a 16 anni che vuoi da noi, sei un giovane fascista”. Ma papà era ferroviere, era iscritto allo Sfi, il sindacato dei ferrovieri che aveva resistito al fascismo, e allora decisero di iscrivermi e mi spedirono come primo incarico a vendere l’Avanti, il primo numero dell’Italia liberata. Sono entrato nel Partito socialista perché figlio di un ferroviere, altrimenti non mi avrebbero iscritto, e la mia prima prestazione fu quella di distribuire l’Avanti. Lì comincia la mia storia e il mio giuramento di fedeltà». Tocca a un ragazzo del secolo scorso come lui la lettura più acuta della vittoria di Schlein: «È stata scelta dalla vita». 

Come giudichi la sua elezione a segretaria?

Non è qualcosa di provvisorio, di accidentale, di superabile nel breve periodo, perché si è chiuso un ciclo. La modalità con cui si chiudono cicli storici anche lunghi possono ingannare, questo mutamento nella direzione politica della sinistra sopravvissuta può apparire come un incidente procedurale. Invece, è l’esplodere di una situazione covata a lungo. Non è un avvenimento contingente, è la fine di un ciclo. E allora bisogna approfondire: cosa è avvenuto nel ciclo? Quali sono stati gli elementi della decomposizione che hanno portato all’implosione?

Approfondiamo: cosa è avvenuto?

«C’è un punto di origine. Il periodo tormentato che comincia all’inizio degli anni Novanta, tra il 1989 e il 1994, quando si è avviato un ciclo nuovo e imprevedibile dopo la chiusura inattesa di una lunga stabilizzazione internazionale. Non cadde il muro, ma venne giù un campo ideologico internazionale che aveva retto l’equilibrio con l’altro campo. Il sistema politico italiano era anomalo nell’Europa libera perché aveva un forte partito che militava nel campo ideologico avverso, il Pci. L’equilibrio interno era stato garantito da un patto costituzionale, la Costituzione. Con un compromesso: chi governava per conto del campo occidentale aveva il compito di gestire la politica estera, il Pci aveva però la garanzia che nessuna legge di carattere costituzionale o socialmente importante sarebbe stata votata senza il suo consenso. Il patto ha retto finché c’è stato lo scontro nel mondo. Quando è venuto meno lo scontro nel mondo è venuta meno anche la doppia garanzia.

Siamo a trent’anni fa, al 1993-94, quando è cominciata la Seconda Repubblica. Che cosa ha sostituito quel patto?

Dopo il 1993 sono stati immessi nella responsabilità di governo non solo gli eredi del Pci, che avevano già avuto un ruolo importante – il governo del parlamento parallelo al governo effettivo del paese – ma è diventata forza di governo anche la destra di origine extra e anti-costituzionale, fascista. E si è stabilito un altro patto: non saprei dire quanto manifesto o quanto occulto, ma di certo convergente per necessità. Un patto tra la sinistra e la destra, che ha unito la nostalgia del fascio e la tradizione del Pci. Questo nuovo patto non poteva essere politico, andava filtrato con una operazione culturale. Ha un nome: la storia condivisa.

Cos’è la storia condivisa?

La storia non può essere condivisibile, deve essere obiettiva e vera, la lettura della storia è lettura di tradizioni culturali diverse e conflittuale: il fascismo è il fascismo, l’antifascismo è l’antifascismo, la Repubblica è la Repubblica, Salò è una cosa, la Resistenza è un’altra. E invece la storia condivisa nega questo processo dialettico, cerca di omologare tutto e tutti in un’unica interpretazione, ovvero che sia una che un’altra posizione possono apparire diverse ma in realtà sono identiche. Questa idea della storia condivisa ha trovato un grande attivismo nella sinistra post-comunista. La stessa che arriva a ritenere oggi che anche questa destra sia omologabile, nel conservatorismo democratico.

Mi fai venire in mente il discorso di Luciano Violante sui ragazzi di Salò del 1996, ma anche il lavoro della Bicamerale alla fine degli anni Novanta. Si diceva: il riconoscimento tra avversari è un valore, la chiusura della guerra civile italiana durata un secolo.

La storia condivisa va ben oltre il politicamente corretto, non è un nobile compromesso che accetta il confronto tra posizioni diverse. Ha l’ambizione di diventare un pensiero comune, una lettura comune, una condizione comune. In questo, al fondo, è un’operazione anti-democratica, anti-costituzionale, illiberale.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’elezione alla segreteria del Pd di Elly Schlein?

Le nuove generazioni hanno visto in tutto questo uno svilimento, una riduzione, uno svuotamento del sistema democratico che meritava solo l’abbandono. Ecco perché l’astensione che ha raggiunto livelli ineguagliabili. E invece per un incidente procedurale c’è stato un rovesciamento del voto degli iscritti del Pd. Grazie non solo agli elettori, ma anche a chi non era più un elettore, chi si era astenuto negli ultimi anni. È stato usato il varco fornito dalle primarie per mettere il piede nella porta. Questo voto ha rotto l’accettazione, la rassegnazione e indica alla nuova dirigenza una linea di liberazione. Alla rassegnazione è stato risposto con il dinamismo liberatorio».

Perché questa rottura si è indirizzata verso una giovane donna nata nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio e tu avevi già fatto il ministro?

Elly Schlein ha vinto perché non si è consegnata al modello emiliano in cui volevano rinchiuderla. Il fattore determinante che ha cambiato tutto è stato l’ingresso in scena dei non votanti come protesta contro il blocco dei signori delle tessere che avevano condannato il Pd a consumo. Il consumo doveva avvenire nelle stanze di governo, si poteva uscire dalle stanze di governo solo in parcheggio provvisorio nell’anticamera di governo. Il passaggio dall’anticamera alla camera doveva essere naturale. Con lei si spezza anche il patronage del Quirinale, l’idea che il vero capo del Pd sia il presidente della Repubblica.

Come definisci l’identità politica di Schlein?

Contano la sua origine, la sua formazione, la sua storia. La sua non è una storia condivisa, è una storia di rottura. Viene da una famiglia sul lato paterno di ebrei immigrati in America, un pezzo della sua famiglia è stata perseguitata, capisce i grandi fenomeni migratori, capisce le rivolte culturali di nuova generazione. Nella famiglia materna c’è Agostino Viviani, che è stato deputato socialista, c’è un ramo dei Viviani di destra e uno dei Viviani di sinistra, ancora una volta una storia non condivisa. Lei sente questa radice, la rivendica. Più che aver fatto una scelta di vita, è stata scelta da una vita nuova. Elly Schlein è stata scelta dalla vita. Chi fa una scelta di vita può cambiare, ma chi è stata scelta dalla vita non potrà cambiare, senza rinnegare e mortificare sé stessa.

Qualcuno ha detto che la sua vittoria è un Midas del Pd, la rivolta generazionale che portò al potere Craxi.

In comune c’è una risposta vitalistica con un contenuto politico. Ma nel Psi l’operazione fu tutta interna a un partito prosciugato dal demartinismo, la destra autonomistica nenniana e la sinistra movimentista lombardiana per trovare un accordo usarono le ragioni della maggioranza demartiniana, portarono con sé Enrico Manca che aveva lo stesso ruolo oggi di Franceschini... Nel Pd invece non c’è stato né vitalismo né risposta politica. C’è un’area della praticoneria dorotea, la procellaria, i sensitivi del trasformismo che vedono in anticipo dove soffia il vento e si sono mossi per tempo con l’intento di placare, bloccare, ridurre tutto alla normalità. E invece decisivo è stato il cambiamento del sistema, il passaggio dalla rassegnazione alla liberazione.

Quale sarà l’effetto sul sistema politico oggi dominato dalla destra di Giorgia Meloni?

Si apre un processo nuovo, lungo. Quando si interrompe un ciclo, gli elementi imitativi della rottura sono dilaganti, nessuno li può mettere sotto controllo. Anche il voto per Giorgia Meloni è stato di rassegnazione. La destra fino a quando era all’opposizione poteva essere diversamente nostalgica, è andata al governo con un ibrido, un misto, una insalata russa con dentro tutti gli ingredienti. Per questo Meloni non è in condizione di poter governare, con una maggioranza composita, contraddittoria e soprattutto anti-ciclo. Non è casuale che tutto ciò avvenga alla vigilia di elezioni europee tra un anno in cui l’Europa sarà chiamata a votare o in uno stato di guerra o in una difficile gestione del dopoguerra. L’Europa non ha saputo sfruttare bene una condizione di pace e di gratuita estensione territoriale, tutto è stato bloccato e ora si trova in questa situazione. Anche la rassegnazione sulla guerra ha le sue radici nella pestifera teoria della storia condivisa, in cui hanno ragione gli ucraini ma anche i russi.

Che rischi corre la nuova leader?

Che nelle pastoie, nei residui degli apparati conservatori interni ci sia un tentativo di canalizzare la ricerca del cambiamento nel limitarsi a fare la faccia feroce, come avveniva in precedenza. Schlein ha fatto bene a chiedere le dimissioni del ministro Piantedosi sui migranti, nel primo intervento ha fatto una critica sulle politiche sbagliate dell’immigrazione, e alla fine gli ha detto di andarsene, ma come conseguenza delle sue politiche, non l’opposto. Fino a oggi il Pd non chiedeva il mutamento delle politiche, ma delle persone. Sostituire le persone senza cambiare le politiche. Il passaggio dalla richiesta di sostituire le persone alla richiesta di cambiare posizioni politiche è la chiave di volta per capire, leggere il mutamento di ciclo avvenuto. La scelta di vita può essere un passaggio burocratico, per chi è stata scelta dalla vita il cambiamento è una missione.

Chi saranno i suoi avversari?

Un blocco sociale economico e imprenditoriale che si muove sullo scenario internazionale con un neutralismo di partecipazione e un universalismo di traffici. Siamo l’hub, si dice, no?, l’Itaia hub del Mediterraneo, l’hub di tutto! È il volto di un’Italia che rifiuta di essere una comunità nazionale dentro una comunità superiore, l’Europa.

Elly Schlein ce la farà? Deve ricucire con Conte, con il terzo polo? O cambiare gioco?

Non deve pensare di avere una forza erculea, solitaria e personale. Se punta sul titanismo, sbaglia. Deve puntare sull’allargamento del fenomeno innovativo e della rivolta liberatrice nell’interno delle altre forze politiche. Soprattutto, non deve parlare alle altre forze politiche, ma ai non votanti. Non andarsi a impelagare con le alleanze, che sono piccola cosa rispetto al grande fenomeno della diserzione politica. Se tu parli con le nomenclature politiche degli altri partiti fai una trattativa con i perdenti. I vincenti sono ancora dubbiosi e nell’ombra. Bisogna parlare ai vincenti di domani, che oggi sono nell’immensa area dei delusi e degli involontari reazionari, che pensano che le istituzioni parlamentari non servono più, non vale più la pena partecipare e votare. I popoli non amano le rivoluzioni, come le guerre, ma sono destinati a farle quando sono costretti, diceva Trotsky. Oggi o sei costretto a fare una profonda rivoluzione culturale o ti devi rassegnare. La rivoluzione verrà comunque, in forme irregolari, imprevedibili, forse in un altro paese d’Europa.

Prima di uscire gli chiedo ancora: perché hai deciso di iscriverti? Cosa spingeva un ragazzo di sedici anni a entrare nel Psi nel 1943? «Un anno prima, al liceo, in pieno fascismo, sotto l’egida del mio professore di religione monsignor Michele Mincuzzi che sarà vescovo e che fu il consigliere spirituale di Aldo Moro, mi era stato sequestrato un libretto di Bakunin edito dall’Avanti», risponde Formica. «Mincuzzi prese il libretto, tranquillizzò tutti, mi propose di costituire un gruppo repubblicano perché, mi disse, dopo la guerra ci sarà la Repubblica, i cattolici l’avevano già capito. Mio padre alle ferrovie era dirigente del compartimento, tra i suoi dipendenti c’era un tale Catalano che era fotografo della federazione fascista ed era nell’Ovra, ma era tutto un po’ all’italiana. I ferrovieri si riunivano al caffè Vittoria, vicino al Petruzzelli, Catalano doveva riferire alla polizia segreta ma rispettava tutti, ogni tanto andava da mio padre e gli diceva: “don Peppì, qualcosa di quando vi riunite me lo dovete dire, altrimenti sembra che sono connivente con voi”. Mio padre allora gli suggeriva di fare rapporto sul fatto che si raccontavano barzellette, come quella di Ciano ministro degli Esteri che a Varsavia scende dall’aereo e incontra il ministro polacco Beck. I due si presentano: “Ciano”. “Beck”. “Come, anche lei lo sa?”. Quando nel 1943 si costituirono le federazioni io lasciai il gruppo repubblicano e aderii ai socialisti. Per fermarmi monsignor Mincuzzi mi portò all’arcivescovato e mi fece parlare con Moro. Nel 1946, dopo la campagna elettorale sul referendum monarchia-repubblica e sull’assemblea Costituente incontrai Moro, sul treno. Gli domandai, concitato: “Ma come è possibile professore, l’ho vista parlare a Palo del Colle, sul palco, davanti a una bandiera dello scudocrociato, con dietro il tricolore della monarchia alto tre palazzi”. Non potevo crederci, lo avevo conosciuto repubblicano. Moro mi interruppe e mi diede una lezione: “Formica, ma lei lo sa che a Palo tutti sono monarchici?”. E già: dovevi vincere la guerra, essere ammesso tra i vincenti e non tra i vinti, dovevi compiere un’operazione difficile. E serviva un compromesso politico, ma di altra statura. A conferma che la storia non è mai condivisa».

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