La foto di Matteo Salvini con la mascherina a stelle e strisce griffata “Trump 2020”, indossata in autunno fino alla fatidica, attesa, rovinosa, sconfitta del 3 novembre, resta appesa nella galleria delle immagini indimenticabili dell’anno, a immortalare chi in Italia reggeva la coda a The Donald. Anche se, nel momento in cui veniva scattata, era una buona notizia: almeno in quelle occasioni il leader della Lega portava un presidio anticontagio. Cosa che in quel periodo non gli capitava spesso. Rimangiarsi il suo fanatismo per Trump ora Salvini non può. Il «cheerleader» lo aveva definito l’Indipendent. «Il politico dell’Europa occidentale che più somiglia a Trump» aveva scritto il Washington Post quando, nel giugno 2019, da ministro e vicepremier era andato in visita alla Casa Bianca, da Mike Pence. Trump non l’aveva ricevuto. «Vice con vice», si era giustificato, ma ci era rimasto male. Del resto da Trump Salvini aveva da farsi perdonare la vicinanza con Vladimir Putin, che adesso brinda ai fatti di Washington.

Oggi che l’amico americano è arrivato a un passo dall’invito al golpe, Salvini si arrampica sugli specchi. «La violenza non è mai la soluzione, mai. Viva la Libertà e la Democrazia, sempre e dovunque», improvvisa mentre dalla tv va in diretta l’assedio di Capitol Hill. Non è precisamente una dissociazione dal grande fratello populista. Mentre gli altri leghisti evitano come la peste le telecamere, la notte porta consiglio. E così al canto del gallo aggiusta, anche per non diventare l’italiano che «più somiglia» a un accusato di alto tradimento. «Non è un mistero che sostenevo le idee di Trump», concede, «ma un conto è il legittimo voto, un conto entrare armati in parlamento e scontrarsi con la polizia, quella non è una visione politica, è follia».

Giorgia e la fatale Georgia

Non va meglio a Giorgia Meloni, che si era spinta oltre Trump fino alle grazie di Steve Bannon, il consigliere poi allontanato dalla Casa Bianca perché eccessivamente suprematista persino per il suo capo. Nel 2018 Meloni lo aveva voluto come ospite d’onore a Atreju, la festa politica di Fratelli d’Italia. Oggi Bannon è plurindagato e libero su cauzione dopo un arresto per frode. Allo scoppiare dei tumulti, Meloni non ha dubbi, il presidente uscente è un pacifista. «Mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto da Trump», dice, sorvolando sul fatto che poco prima Trump aveva scolpito un tweet opposto («Ci hanno rubato le elezioni, non concederemo mai la vittoria a Biden»).

Ma i compagni, si fa per dire, di Meloni non ci stanno ad ammettere di essere amici di un aspirante golpista. Almeno non gli unici, spiega alla Camera Francesco Lollobrigida. Che condanna la violenza e dice, candidamente, che la dissociazione di FdI era iniziata prima: «Non siamo andati a fare i tifosi, non abbiamo partecipato ai comitati di sostegno dell’uno o dell’altro, magari facendo anche qualche brutta figura, perché, poi, trovarsi il giorno dello spoglio delle elezioni, nel comitato elettorale del candidato perdente, ti si chiede: “Ma che sei andato a fare? Ci sei partito dall’altra parte dell’oceano”». Più che il dissenso politico, dunque, poté il fiuto per la sconfitta, e la paura dello sfottò. Ma Lollobrigida era in compagnia. Ricorda il tweet su “Giuseppi” Conte che ha benedetto il governo giallorosso, il “Vaffa-day mondiale” con cui Grillo ha salutato l’elezione di Trump, come fosse un Cinque stelle all’ennesima potenza; e Alessandro Di Battista che preferiva Trump a «quel golpista di Obama» (per aver avallato la cacciata di Manuel Zelaya in Honduras). Il meglio, però, arriva quando il fratello d’Italia accusa la presidente Nancy Pelosi e il sindaco di Washington di non aver «schierato agenti sufficienti per fermare quattro ridicoli teppisti». È un doppio salto carpiato avvitato: gli aspiranti golpisti, pur condannati in premessa, erano pochi e «ridicoli». Di cui però era meglio fare una bella carneficina.

L’occasione della confusa arringa la dà il deputato dem Filippo Sensi che chiede la solidarietà dell’assemblea al Congresso Usa e al governo di riferire in aula. Richiesta più che legittima in casi del genere. Ma c’è un problema. Dalla notte il Pd bombarda i social sfottendo Lega e FdI per l’amico americano. «Magari stasera vi è più chiaro perché un governo di unità nazionale in Italia non è nemmeno pensabile», twitta Marco Miccoli, vicinissimo a Zingaretti, con una foto di Salvini mascherinato da Trump. Per il Pd non è pensabile un governo con queste destre. Ma è pensabile, persino augurabile, restare al governo con Conte, Di Maio e compagnia. Che però quanto a trumpismo non sono secondi a nessuno. In queste ore in rete impazzano le immagini del premier che stringe la mano al collega biondo mentre gemella «i nostri governi del cambiamento». Conte, che nel frattempo deve pensare a non perdere palazzo Chigi per il tumulto di Matteo Renzi, esprime una stentata quanto scontata «grande preoccupazione» per i fatti di Washington, «la violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche». Tanto che persino il Pd gli chiede di essere «più netto» (Andrea Orlando, il vicesegretario). Italia viva, ancora in esaltazione da crisi di governo, lo crocifigge: «In Italia Trump può contare su tre solidi alleati politici: Salvini, Meloni e Conte». I renziani tornano all’attacco sulla delega dei servizi segreti: Conte deve assegnarla e deve – dicono – chiarire i suoi rapporti con l’amministrazione Trump e le due visite del procuratore Barr in Italia nell’ambito delle indagini sul Russiagate. Il premier corre ai ripari e rettifica: «Non vediamo l’ora di lavorare assieme al presidente Biden e alla vicepresidente Kamala Harris per promuovere insieme un’agenda globale di crescita, sostenibilità e inclusione». L’assedio di Washington fa male ai populisti nostrani; agli incorreggibili, ma anche ai penitenti.

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