L’egemonia esercitata da Silvio Berlusconi e dal berlusconismo sulla destra italiana per un quarto di secolo è stata davvero troppo grande per non aver prodotto su quest’ultima effetti, per così dire, strutturali e di lungo periodo. Ma di quale natura e quanto davvero intensi?

Le conseguenze pratico-politiche di tale egemonia sono state evidenti sin dalla sua «discesa in campo» nell’ormai lontano 1994. Dotato di una grande forza mediatico-finanziaria, di un indiscutibile fiuto politico e di un’innata capacità persuasiva, Berlusconi si inserì nel vuoto politico-partitico apertosi con l’inchiesta di Mani pulite e con la conseguente disgregazione di un intero ceto politico-dirigente, proponendo una formula d’aggregazione il “centrodestra” per l’epoca inedita ma destinata a una grande fortuna elettorale (come si vede ancora oggi).

La sua intuizione, nel passaggio dal multipartitismo al bipolarismo, dal proporzionale al maggioritario, dalla democrazia consociativa alla democrazia dell’alternanza, fu quella di creare una federazione che per la prima volta nella storia d’Italia rendeva organica e stabile – al di là dei momentanei e fisiologici contrasti che si sarebbero registrati nel corso degli anni e che ancora oggi perdurano – l’alleanza tra il fronte cattolico-moderato, ovvero liberal-conservatore, e la destra d’ispirazione nostalgica (nella Prima repubblica non erano ovviamente mancati accordi o forma di collaborazione tra la Dc, partiti laici come il Pli e il mondo del neo fascismo, ma avevano sempre avuto un carattere occasionale e strumentale e comunque non avevano mai dato vita a patti politici espliciti o a programmi d’azione condivisi se non talvolta a livello periferico).

Quello inventato da Berlusconi fu un blocco socio-elettorale anti sinistra, del quale sin dal primo momento ha fatto parte anche la Lega micro-nazionalista di Bossi nata poco anni prima come rivolta dei territori ricchi del nord contro gli sprechi e le ruberie di “Roma ladrona”, la cui indiscutibile forza nel corso del tempo è dipesa da almeno tre fattori preminenti.

La manipolazione alchemica

La “destra nuova” nata o rafforzatasi dopo il crollo del vecchio sistema dei partiti quella liberal-edonista rappresentata da Forza Italia, quella etno-regionalista che aveva in Bossi il suo riferimento carismatico e quella nazional-conservatrice erede dell’auto-dissolto Msi è riuscita a conquistare un crescente credito popolare, ad accreditarsi come alternativa strutturale a una sinistra a sua volta alle prese con complicati processi di scomposizione-riaggregazione e, soprattutto, a divenire ciò che non era mai stata e che forse senza la manipolazione alchemica di Berlusconi non sarebbe mai diventata: una forza di governo pienamente legittimata in tale ruolo, fortemente competitiva sul piano del consenso popolare e non più marginalizzata a livello di vita pubblica, come i quasi trent’anni successivi avrebbero dimostrato.

Insomma, sul lato politico, Berlusconi ha contribuito alla fortuna mondana della destra: l’ha sottratta al suo destino di marginalità e irrilevanza, l’ha guarita dalle sue ubbie mentali passatiste (nel caso dei post-fascisti) e dal suo avventurismo istituzionale (nel caso del secessionismo leghista), ha contribuito alla sua legittimazione formale-costituzionale e ha fatto conoscere a tutti i suoi esponenti l’inedita ebbrezza del potere (con annessi agi e privilegi).

Aveva ragione Montanelli?

Viene però da chiedersi se non avesse ragione Indro Montanelli quando sosteneva all’epoca del suo epico scontro col Cavaliere conclusosi con le dimissioni dalla direzione del Giornale che aveva fondato nel 1974, in polemica con la deriva «sinistrorsa» del Corriere della Sera che il fondatore di Forza Italia, col suo fare padronale e possessivo, con i suoi modi da imprenditore rampante preoccupato solo dei suoi personali interessi, al di là dei più o meno momentanei o duraturi successi elettorali conseguiti, avrebbe finito per snaturare la destra italiana sino a renderla culturalmente irriconoscibile e alla lunga politicamente impresentabile. Lo stato, il governo, l’autorità (anche quando rappresentata da militari in divisa), il rispetto delle regole, la forza della legge, i vincoli di solidarietà sociale, l’interesse nazionale: tutto ciò, che un tempo rappresentava l’universo simbolico di riferimento della destra d’ogni possibile forma e colore (dal nero del fascismo autoritario al grigio del moderatismo conservatore), sembra essersi dissolto dinnanzi alla scelta di affermare sopra ogni cosa la libertà assoluta e incondizionata del singolo.

Quello che oggi colpisce e che la dice lunga sui cambiamenti nel frattempo intercorsi è come a destra, quella che attualmente conosciamo e vediamo in azione, si siano pressoché esaurite tutte le fonti di dibattito e di produzione culturale che in passato hanno contribuito ad alimentarne le posizioni politiche e l’immagine agli occhi del proprio elettorato di riferimento. La destra italiana, anche quando aveva una ridotta forza elettorale e si trovava a vivere una condizione di esclusione dai circuiti politico-mediatici ufficiali, presentava al suo interno una grande ricchezza di posizioni (persino troppo per un mondo nel complesso assai ristretto). Poteva contare sul lavoro creativo di circoli, case editrici, riviste, organizzazioni culturali che con il mondo partitico ufficiale e con i loro leader sul territorio intrattenevano rapporti più o meno organici, anche a fronte di dissensi ideologici talvolta assai marcati.

La comunicazione

Oggi, invece, la comunicazione unidirezionale e assertiva del leader – scientificamente veicolata a colpi di tweet e post – si è mangiata ogni spazio di elaborazione, è divenuta l’unica forma di costruzione di un discorso politico pubblico accettata e utilizzata. Una comunicazione spesso strumentale e fine a sé stessa: diretta, immediata, iper-semplificata, martellante e spesso sopra le righe (e come tale sovente ansiogena e aggressiva). Ma anche contraddittoria nel suo essere solo contingente, occasionalistica e strumentale: oggi di dice una cosa, domani il suo contrario, secondo le necessità polemiche e le convenienze del momento, giocando sull’inclinazione all’oblio degli elettorati contemporanei, sulla tendenziale scomparsa di un circuito giornalistico critico e indipendente dal potere e su un sistema dell’informazione divenuto talmente ipertrofico, vorticoso e caotico da favorire la comunicazione prêt-à-porter, di facile e immediato impatto, su quella più ragionata e riflessiva.

E proprio i leader della nuova destra post-berlusconiana – da Salvini a Meloni – sono quelli che meglio sembrano essersi adattati a questo nuovo ecosistema comunicativo e che meglio riescono a sfruttarlo sul piano tecnico. Ma anche in questo caso, nulla di nuovo, nonostante il salto tecnologico dal tubo catodico allo smartphone: Berlusconi aveva già capito e insegnato a tutti cosa significhi comunicare nell’epoca della democrazia del pubblico e della “demopatia”.

Il tarlo venticinquennale del berlusconismo per dirla con Montanelli sembra avere consegnato all’Italia odierna una tale destra: pulsionale, disinteressata al dibattito delle idee, protestataria e latamente sovversiva, irrealistica e sommaria nei suoi proponimenti, come tale senza molti possibili paragoni o termini di confronto sulla scena europea. Una destra che com’era già ai tempi d’oro del Cavaliere tanto è maggioritaria e vincente alle urne, come sembrano dire i sondaggi ancora oggi, tanto rischia di risultare poi perdente e deludente alla prova politica per eccellenza: il governo della comunità che si aspira a rappresentare e guidare. Da questo punto di vista, venticinque anni di berlusconismo non hanno insegnato proprio niente ai suoi odierni (chissà quanto coscienti o involontari) epigoni.

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