Gli interessati negano ripetutamente, ma fra il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, e Carlo Calenda c’è stato un «contatto». E se parlare di disgelo è troppo, se l’ex ministro dello Sviluppo economico ci spiega che «oggi non c’è nessuna novità tranne che io vado avanti», qualcosa sta cambiando. Il tono che fino a qualche giorno fa era di scettica distanza stavolta è diventato cordiale e di confronto.

Quella che sicuramente invece è cambiata è l’aria che tira fra Pd e Cinque stelle. Le alleanze locali immaginate sul modello della coalizione del governo giallorosso fin qui erano state una possibilità. Tutta da costruire, caldeggiata apertamente da Zingaretti e dal ministro Luigi Di Maio. Ma dopo gli Stati generali, il Pd ha capito che i Cinque stelle vivranno di qui in avanti una fase «di congresso permanente»; che le condizioni fra gli alleati non migliorano; e che la dimostrazione è che il ministro degli Esteri ha chiesto di rinforzare il peso di M5s nell’esecutivo. Una provocazione, più che una proposta.

In questo clima generale nella maggioranza, di scontri interni un po’ su ogni dossier – sulla Rai si sta consumando un conflitto durissimo – ieri i dem hanno dovuto prendere atto che anche il tavolo sulle riforme sta finendo impantanato a causa delle frenate che arrivano da M5s e da Italia viva. I primi sono contrari al superamento del bicameralismo perfetto proposto dal Pd, i renziani invece sono contro la legge elettorale proporzionale. Il Pd si appella al presidente Conte, il presidente Conte fatica a tenere le redini.

Gli stessi rapporti (freddi) fra alleati si misurano anche nelle città che vanno al voto la prossima primavera, contagio permettendo, e tenendo presente che l’anno scorso le amministrative sono state rimandate all’autunno per via della pandemia. Le ipotesi di avvicinamento fra Pd e Cinque stelle sono nei fatti sfumate ovunque. Resta ancora aperta una possibilità di accordo a Torino; ma a Bologna, Napoli e Milano le alleanze non si faranno. Quanto a Roma, un accordo non era mai stata una possibilità concreta ma una suggestione. È svanita anche questa, ora che è chiaro che Virginia Raggi resterà al suo posto di candidata sindaca e nel M5s nessuno la metterà in discussione anche per non regalare un argomento di polemica interna a Alessandro Di Battista.

Insomma fra dem e Calenda resta lo scoglio difficilmente aggirabile di un candidato sindaco ostile al governo che il Pd tiene in piedi. Ma dal Pd nazionale sembra ammorbidirsi l’ostilità granitica della prima ora.

Intanto in città il Pd romano lavora in parallelo sull’ipotesi delle primarie, sempreché la pandemia ne consenta lo svolgimento (cosa sempre meno probabile). E riunisce i tavoli della futura coalizione cittadina su questioni «di merito», come dice il segretario Andrea Casu. Ieri sera si è discusso sulla delibera popolare per un regolamento sulla gestione dei beni comuni, in esame al consiglio comunale, sulla quale sono state raccolte 15 mila firme di cittadini e cittadine.

Il rallentamento della corsa dei candidati era scontato. Il contagio ha cambiato le priorità: la sanità cittadina è sotto pressione e la pandemia apre emergenze continue nella Capitale (ieri mattina si è fermata la sfortunata Metro C, mancava il personale). Ma c’è chi crede che prima o poi i gazebo si apriranno, come Paolo Ciani, esponente della Comunità di Sant’Egidio, consigliere regionale del Lazio e a capo di Demos, l’ala cattolica che ha accompagnato Zingaretti alla vittoria della segreteria del Pd. Ciani anziché mettersi in pausa ha rilanciato e annunciato un «ticket» con Sabrina Alfonsi, presidente del primo Municipio, e ha spiegato che a loro potrebbero aggiungersi in corso d’opera altri candidati, il presidente del terzo municipio Giovanni Caudo e l’attivista Tobia Zevi, due di quelli che poco generosamente il Pd aveva definito «i sette nani».

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