La legge costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari (da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori) sarà sottoposta a referendum il 20 e 21 settembre, in concomitanza con le elezioni dei presidenti di sei regioni (Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia) e dei sindaci di oltre mille comuni.

A meno di un mese dal voto, la maggior parte delle forze politiche non sembra avere una linea chiara sull’argomento, anzi al proprio interno, sempre più spesso, convivono sostenitori del sì e sostenitori del no.

Le ragioni di questa frammentazione hanno origine dall’iter di approvazione della legge. Il testo, voluto dal Movimento 5 stelle, è stato incardinato e votato nelle prime tre letture durante il governo Conte I, sostenuto da M5s e Lega, con l’opposizione di tutto il centrosinistra. La quarta lettura è avvenuta poche settimane dopo l’insediamento del governo Conte II, composto da grillini, Partito democratico, Italia viva e Liberi e uguali. E i 5 stelle hanno chiesto, e ottenuto, che tra i punti dell’accordo di governo, ci fosse l’impegno di tutte le forze della maggioranza a votare a favore della legge.


Chi vota sì

Oggi il fronte politico di chi è favorevole al taglio dei parlamentari e quindi voterà sì, è composto dal Movimento 5 stelle e dal blocco di centrodestra formato da Lega e Fratelli d’Italia. I partiti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, proprio come i grillini, hanno sempre votato a favore della legge, anche quando si trovavano all’opposizione. Forza Italia, invece, si è schierata per il sì, pur con numerose posizioni diverse al proprio interno.

Gli esponenti del partito di Silvio Berlusconi, Andrea Cangini e Nazario Pagano, sono stati tra i promotori della raccolta di firme per lo svolgimento del referendum e 42 delle 71 sottoscrizioni appartengono a senatori di FI. Inoltre, la richiesta di referendum è stata possibile grazie al fatto che i senatori di Forza Italia non ha partecipato al voto in terza lettura, impedendo così che la legge venisse approvata con la maggioranza qualificata di due terzi dell'assemblea.

Il 19 agosto, con un articolo sul Foglio, la capogruppo alla Camera di FI, Mariastella Gelmini, ha annunciato la collocazione degli azzurri sul fronte del sì. Prima di lei, la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, eletta con Forza Italia ma da tempo in polemica con la linea del partito, aveva espresso la stessa posizione.


Dentro FI, però, oltre ai sostenitori del referendum, le voci contrarie sono numerose e autorevoli, e in gran parte sono appartenenti alla "vecchia guardia": dalla deputata Deborah Bergamini al collega Giorgio Mulè, passando per il senatore Lucio Malan e il vicecapogruppo alla Camera, Simone Baldelli, fino al deputato Renato Brunetta.

Gli indecisi

Difficoltà maggiori si trova ad affrontare il centrosinistra. Nelle prime tre letture, il Partito democratico – che all’epoca comprendeva anche deputati e senatori di Italia viva – ha votato contro la legge costituzionale promossa dal governo Conte I, opponendosi al taglio lineare del numero di parlamentari in assenza di un progetto di riforma più ampio. All’ultima lettura, in concomitanza con la nascita della nuova maggioranza Pd-M5s, i democratici hanno scelto di orientarsi sul sì, spiegando in un documento che “con la nascita del governo Conte II sono state concordate linee programmatiche” con le quali si avvia “un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica”, “anche attraverso la riforma del sistema elettorale”. Lo stesso ha fatto Italia viva.

A un mese dal referendum, però, il Pd non si è ancora espresso in maniera ufficiale per il sì, ma secondo Repubblica il segretario Nicola Zingaretti ha convocato per i primi di settembre una direzione per decidere la linea. Il motivo principale per cui la segreteria non ha ancora preso una posizione chiara è che la nuova legge elettorale – indispensabile perché il taglio dei parlamentari non renda virtualmente impossibile andare al voto – è ancora ferma in commissione, nonostante fosse una delle condizioni poste dal Pd ai 5 stelle in cambio del voto favorevole.

La ragione politica, invece, ha a che fare con le fibrillazioni interne al partito, anche a causa delle insistenti richieste di congresso da parte della minoranza.

Tra le correnti, l’unica apertamente per il sì è Base riformista, che fa capo a Luca Lotti e Lorenzo Guerini, con il costituzionalista e deputato Stefano Ceccanti che sostiene che il taglio produrrà “una maggiore razionalizzazione e un sistema più funzionale”. Sulla stessa posizione è anche il presidente della regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, che viene indicato come possibile competitor di Nicola Zingaretti per la segreteria del Pd. Per il sì si sono espressi anche l’ex segretario, Maurizio Martina e l’ex ministro della Giustizia e vicesegretario, Andrea Orlando. Per il no, invece, si stanno mobilitando i deputati di minoranza Matteo Orfini e Gianni Pittella, ma anche l’ex deputato considerato vicino a Zingaretti, Gianni Cuperlo, e Tommaso Nannicini, che insieme ai colleghi di Forza Italia è tra i promotori della richiesta di referendum.

Oltre alle ragioni di merito sulla legge, la spaccatura interna ai democratici ha una origine più profonda: in discussione c’è l’idea di un’alleanza stabile con il Movimento 5 stelle, fortemente voluta dalla componente del partito che fa capo a Dario Franceschini (che verrebbe rafforzata da un sì pubblico al referendum, perché farebbe coincidere la posizione del Pd con quella del M5s), e messa in discussione da una parte della base, capitanata dai sindaci di Bergamo, Giorgio Gori, e di Firenze, Dario Nardella.

Anche in Italia viva la questione referendaria è tutt’altro che risolta. In quanto forza di governo, il partito di Matteo Renzi ha votato a favore del taglio dei parlamentari, ma la scelta è stata giustificata come atto di fedeltà nei confronti dell’esecutivo. Per ora Renzi non ha dato indicazioni di voto e l’intenzione sembra essere quella di non impegnarsi nella campagna. Per il no, tuttavia, si è schierato pubblicamente il deputato di Iv, Roberto Giachetti: “Una riforma basata su un principio matematico e condita dalla stucchevole litania sui risparmi significa consegnarsi a una cultura populista e demagogica”.

Chi vota no

Se i due partiti di centrosinistra che fanno parte della maggioranza di governo sono ancora incerti, alcuni di quelli che sono stati i loro alleati alle urne nelle elezioni del 2018 hanno scelto di sostenere il no. Azione di Carlo Calenda, Sinistra italiana e +Europa, infatti, oggi all’opposizione del governo Conte II, hanno già pubblicamente annunciato la loro contrarietà al taglio dei parlamentari.

Nella galassia che fa riferimento all’area politica progressista, gli ultimi in ordine di tempo a scegliere il no sono state le Sardine. Il movimento di Mattia Santori ha pubblicato un post in cui dice che “tagliando il numero dei parlamentari si mettono in discussione le fondamenta della democrazia parlamentare, con la sua capacità di esprimere il pluralismo e la complessità della società”. La prima a prendere posizione, invece, era stata l’Associazione nazionale partigiani italiani, con la pubblicazione di un vademecum in cui si spiega che il taglio “limita il diritto alla rappresentanza” e si definisce “pericolosa” l’avversione “verso la democrazia rappresentativa” che questa riforma incarna.

Il 20 agosto anche il quotidiano La Repubblica, con un editoriale del direttore Maurizio Molinari, ha preso posizione contro il taglio dei parlamentari che, “in assenza di un quadro di riforma”, “si trasforma in una semplice riduzione numerica incapace di rispondere alla necessità di avere un Parlamento più efficiente”.

Schierata da subito per il no anche la Fondazione Einaudi, storico punto di riferimento del mondo liberale italiano, che all’indomani dell’approvazione della legge si è fatta promotrice della raccolta delle firme per il referendum. Il presidente, Giuseppe Benedetto, ha detto che “se diminuisce la rappresentanza diminuisce la democrazia” e “con il taglio dei parlamentari è stata commessa una violenza nei confronti della Costituzione ed è necessario il giudizio degli italiani”.

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