Il documento citato dal segretario al Congresso di Firenze è quanto di più lontano dalle posizioni del partito. Ma il leader della Lega ha imparato la lezione di Umberto Bossi. Per loro la storia è sempre stata un contenitore di immagini e parole dove pescare per costruire il discorso più funzionale alla necessità del momento politico
Matteo Salvini ha chiuso l’intervento pronunciato in occasione del Congresso di Firenze della Lega con un riferimento al 25 aprile e alla storia d’Italia, invitando i giovani del suo partito a raddrizzare le narrazioni (a suo dire false) prodotte nelle scuole, nei licei, nelle università: «Lasciamo alla sinistra gli scenari apocalittici, i fascisti, i nazisti. Si avvicina il 25 aprile. Ricordo sottovoce che, fra coloro che contribuirono alla Liberazione, c’erano anche gli estensori delle Valli Alpine della Carta di Chivasso, che hanno se non più merito degli altri quantomeno lo stesso merito degli altri. E invito i giovani della Lega: andiamo fuori dalle scuole, andiamo fuori dai licei, andiamo fuori dalle università, a gente che parla di cose che non conosce, la Carta di Chivasso del dicembre 1943! Fra le popolazioni delle nostre montagne, la Carta di Chivasso scriveva – mentre combattevano contro la dittatura – che solo il federalismo avrebbe creato pace e progresso. Quindi, il 25 aprile non è delle bandiere rosse e dei compagni. Il Primo maggio è la festa di tutti i lavoratori, non della Cgil. Giù le mani dalla storia italiana! E rimettiamo le cose a posto!».
La Carta di Chivasso, insomma, è stata sventolata da Salvini come il simbolo di un’«altra Liberazione», quella dei federalisti di un mondo alpino che è stato il primo fertile terreno della militanza leghista, quasi a tracciare una linea di continuità politica e culturale tra loro e la Lega in congresso.
Gli estensori e il testo
Chi erano, dunque, gli estensori dell’importante documento evocato da Salvini? Quale la cultura politica che li animò? Émile Chanoux, Ernesto Page, Giorgio Peyronel, Mario Alberto Rollier, Gustavo Malan e Osvaldo Coïsson sono i nomi degli antifascisti valdostani e valdesi che, nel dicembre del 1943, consegnarono alla storia una carta che intendeva contribuire alla costruzione di un futuro di libertà e di pace, basato sul federalismo e sulla richiesta di autonomia politico-amministrativa, culturale, scolastica ed economica per i loro territori di provenienza.
Letti con attenzione, però, gli articoli di quella carta rivelano un’impostazione non coincidente con il pensiero della Lega e del governo di cui è parte. Gli estensori della Carta di Chivasso, per esempio, affermarono che, nel regime democratico federale che avevano in mente, «i ceti dei lavoratori devono vedere sicuramente salvaguardati i loro diritti con le opportune autonomie operaie aziendali, in modo da impedire ogni ritorno capitalistico»[1].
Ancora, l’economia e la società delle montagne alpine andavano tutelate dallo stato che, tra le altre cose, si doveva dotare di «un comprensivo sistema di tassazione delle industrie che si trovano nei cantoni alpini (idroelettriche, minerarie, turistiche e di trasformazione, ecc.), in modo che una parte dei loro utili torni alle Vallate Alpine e ciò indipendentemente dal fatto che queste industrie siano o meno collettivizzate».
Infine, il potenziamento delle industrie di montagna doveva condurre alla «formazione di un ceto operaio evoluto e capace. A questo scopo si potranno anche affidare, ove occorra, all’amministrazione regionale o cantonale, anche in caso di organizzazione collettivistica, dell’artigianato, il controllo o l’amministrazione delle aziende aventi carattere locale».
Da Chivasso a Ventotene
In altri termini, il documento richiamato dal segretario leghista afferma la necessità di un intervento dello stato in economia e si fonda, almeno in parte, su una lettura della realtà sociale ed economica, maturata nelle stanze del mondo operaio organizzato e delle sinistre cattoliche, valdesi, socialiste azioniste dei primi anni Quaranta.
La Carta di Chivasso aveva molto in comune con il Manifesto del Ventotene, redatto due anni prima. Mario Alberto Rollier e Altiero Spinelli erano del resto amici e furono tra i sottoscrittori del documento di fondazione del Movimento federalista europeo nell’agosto del 1943.
Se, come abbiamo appreso poche settimane fa, l’Europa di Altiero Spinelli e del Ventotene «non è» quella di Giorgia Meloni, certo non dovrebbe esserlo nemmeno quella di Mario Alberto Rollier e di Chivasso. Perché, allora, Matteo Salvini ha scelto di fare riferimento proprio a questa Carta così politicamente problematica per chi sia parte del suo governo?
La Lega di Bossi
Probabilmente perché ha imparato fino in fondo la lezione del padre fondatore del suo partito, Umberto Bossi, e di tutti coloro che con lui lavorarono alla continua ricostruzione dell’identità politica leghista, delle sue retoriche e dei suoi miti fondativi.
Sin dai primi anni Ottanta, Bossi e i suoi collaboratori si impegnarono in una vasta operazione di uso politico della storia, atta a legittimare le loro proposte di rottura del sistema politico consolidatosi dopo la Seconda guerra mondiale. È nel quadro di quella stessa operazione che Bossi trovò i riferimenti per dare un nome e un simbolo alla Lega Lombarda.
Scriveva Daniele Vimercati – giornalista bergamasco che sarebbe stato tra i principali interlocutori intellettuali di Bossi – nel primo volume di autorappresentazione leghista del 1990: «Bossi fruga nella sua cultura storica un po’ abborracciata e scova il “mito” giusto: la lega dei venti comuni lombardi – e veneti ed emiliani – che si allearono, nel XII secolo, per cacciare l’imperatore Federico Barbarossa, simbolo del centralismo statale. È fatta: il movimento si chiamerà Lega Autonomista Lombarda e il simbolo sarà il profilo della Lombardia sovrastato dal guerriero di Legnano»[2] .
Era possibile comparare seriamente, in chiave storica, la realtà sociale ed economica lombarda degli anni Ottanta del Novecento con quella di Federico Barbarossa? Ovviamente no, come riconosceva lo stesso Vimercati: eppure funzionò.
Ancora, per portare un altro esempio, negli anni del secessionismo padano Gilberto Oneto – animatore dei Quaderni padani e uomo di cultura vicino al partito di Bossi – scrisse L’invenzione della Padania. La rinascita della comunità più antica d’Europa, un libro nel quale affermò, tra le altre cose, che «il parallelo tra la conquista romana della Padania e quella statunitense del West è impressionante: si trattava di stati centralisti contro comunità locali fortemente autonome, di macchine militari poderose contro il coraggio di guerrieri eroici ma disorganizzati (con un corollario di violenze, distruzioni di villaggi e massacri di popolazioni inermi), di società dotate di un alto potere di modifica del territorio contro popolazioni che vivevano di rispetto per la natura»[3].
Una forza trumpiana
Evidentemente, nella riflessione “storica” di Oneto, la fantasia fece la parte del leone eppure, ancora una volta, il discorso funzionava poiché forniva una narrazione utile al partito in quel momento (ma oggi completamente rimossa).
La storia, insomma, è stata sempre per la Lega un contenitore di immagini e parole dove pescare – con grande abilità e spregiudicatezza – per costruire il discorso più funzionale alla necessità del momento politico.
In questo senso, la Lega è stata una forza trumpiana prima di Donald Trump, perché già negli anni Ottanta si smarcò dalla necessità di misurarsi con i contenuti di verità dei propri discorsi e delle proprie ricostruzioni storiche, ponendosi unicamente il problema della loro efficacia e capacità seduttiva.
Il suo elettorato si è allenato a non considerare rilevante la distinzione tra vero e falso nelle esternazioni di Bossi, apprezzandole per la capacità di fare breccia nei media, conquistare attenzione e potere.
Non per caso, tra i principali avversari del partito troviamo da subito le scuole, i licei, le università che, invece, devono porsi sempre e prima di tutto la questione della verità. La Lega, in altri termini, aprì in Italia la stagione della post-verità e Salvini continua a esserne uno di più grandi e interpreti nel nostro paese.
Così, per il 25 aprile 2025, è comparsa la Carta di Chivasso che, se non ci si pone il problema di leggerla e di conoscerne gli estensori, è certo una carta alpina e autonomista, buona per scaldare i cuori di chi sente la necessità di costruire un altro 25 aprile.
[1] Dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine, https://www.csfederalismo.it/images/2023/convegniseminari/Carta-di-Chivasso_19-dicembre-1943.pdf
[2] Daniele Vimercati, I lombardi alla nuova crociata. Il “fenomeno Lega” dall’esordio al trionfo. Cronaca di un miracolo politico, Mursia, Milano, 1990, p. 8.
[3] Gilberto Oneto, L’invenzione della Padania. La rinascita della comunità più antica d’Europa, Foedus, Bergamo, 1997, p. 81.
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