Tutti in riga dietro il capo? In politica, più ancora che negli altri campi della vita, l’apparenza spesso inganna, e non sono molti i commentatori che si sono fatti convincere dal voto unanime con cui il Consiglio federale della Lega ha rinnovato la fiducia alla linea proposta dal suo segretario, che nell’occasione ha rispolverato, con il suo «ascolto tutti, ma poi decido io», il classico repertorio bossiano. Uno scetticismo che ha molte fondate ragioni.

La prima di esse deriva, ovviamente, dalle reiterate frecciate che Giancarlo Giorgetti insiste a inviare a Matteo Salvini, pur condendole dalle reiterate assicurazioni – peraltro credibili, perché è difficile riconoscergli i modi e la statura di un leader di partito, soprattutto di un partito la cui base (il discorso sarebbe alquanto diverso se si guardasse ai quadri intermedi) ha sempre dimostrato di amare i capipopolo – di non voler preparare scissioni o fronde organizzate.

Le recenti uscite sulla svolta incompiuta in Europa, sul paragone fra il Capitano e l’eroe sbruffone degli spaghetti western interpretato da Bud Spencer accompagnato dall’invito ad accontentarsi di un ruolo futuro di «coprotagonista», sulla possibile e auspicata elezione di Mario Draghi al ruolo di capo dello stato, che a detta del ministro dello Sviluppo economico instaurerebbe in Italia un semipresidenzialismo di fatto, non sono che un ulteriore capitolo di un libro già lungo.

La strategia di Giorgetti

Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse 29 Settembre 2021 Roma (Italia) Cronaca: Assemblea nazionale Confcommercio Nella Foto : Giancarlo Giorgetti Photo Cecilia Fabiano/ LaPresse September 29, 2021 Rome (Italy) News : Confcommercio National Assembly In the Pic : Giancarlo Giorgetti

Giorgetti ha una sua strategia, che certamente non coincide con quella di Salvini, e ce l’ha da sempre. Se sia semplicemente il frutto di convinzioni personali o di ispirazioni mosse dalla frequentazione di ambienti economici che contano, è difficile dire. Nelle interviste a lui piace descriversi come un uomo che si è formato nel corso degli anni sulla base di ampie letture e riflessioni, e non c’è da dubitarne, anche se risulta difficile capire come i testi di Alain Caillé sulla decrescita o la critica del liberalismo di Alain de Benoist, citati fra gli autori di riferimento nella fase giovanile, abbiano potuto condurlo alle posizioni odierne. Resta il fatto che la fede nelle virtù del mercato e il culto delle istituzioni più volte professati poco si accordano con lo stile e le affermazioni del leader di cui ufficialmente è il vice.

Più specificamente Giorgetti è da tempo, e forse da sempre, convinto che il populismo – adottato e interpretato con impegno prima da Bossi e poi da Salvini – non sia né una formula politica vincente nel medio-lungo periodo né la risposta adeguata alle istanze di quella fetta di società, in primo luogo settentrionale, ai cui interessi si considera legato.

Ne ha dato una evidente dimostrazione quando ha sabotato sin dall’inizio con periodiche dichiarazioni velenose l’alleanza su cui si era costituito il primo governo Conte, in cui improvvidamente il segretario leghista, puntando sulla sua immagine di moderato e mediatore, lo aveva imbarcato con un ruolo di forte responsabilità.

E ha continuato a muoversi sulla stessa linea anche dopo che, cedendo ai suoi suggerimenti, Salvini ha bruscamente chiuso l’esperienza gialloverde, gettando alle ortiche quasi la metà di quel 34,3 per cento che l’elettorato delle europee 2019 gli aveva regalato. In quella prospettiva ha caldeggiato, insieme ai presidenti di regione del partito, l’ingresso della Lega nell’esecutivo guidato da Draghi, con cui non ha mai nascosto un’affinità di vedute e uno stretto rapporto personale, e ha fatto da contrappeso ai peraltro ondeggianti e discontinui tentativi di Salvini di tenere i piedi in due staffe, con un occhio alle esigenze di tenuta del governo e un altro, ricco di ammiccamenti, alle inquietudini di una piazza propensa all’opposizione alla «dittatura sanitaria» e alle «derive tecnocratiche».

Un nuovo clima

Se il ragionamento su cui poggia l’operazione del “leghista buono” sia fondato, è lecito a un osservatore che conosce la materia avanzare qualche riserva. Che lo stato d’animo collettivo causato dalla pandemia abbia invertito di segno il ruolo che la paura da sempre esercita in politica, spostandolo dal binomio immigrazione-insicurezza, che gonfiava le vele dei successi populisti in tutta Europa e oltre, a quello fra scienza e salute, che va a tutto vantaggio delle formazioni “razionali” e moderate, non c’è dubbio: vari dati elettorali lo dimostrano.

Ma il clima emergenziale è destinato, prima o poi, a riassorbirsi e – si presume – a scomparire. E non è improbabile che dal ritrarsi dell’onda riaffiori un panorama di preoccupazioni di ordine economico e socio culturale denso di incognite, che potrebbe rapidamente riavviare il ciclo delle inquietudini e delle proteste, riportando in auge le classiche tematiche populiste. E a quel punto, lo scambio fra perdita di consensi e crescita di legittimità a governare su cui Giorgetti e i suoi sostenitori stanno puntando potrebbe rivelarsi tutt’altro che virtuoso. Mentre un concorrente diretto come Fratelli d’Italia finirebbe con il trarre forti guadagni dalla diversa rotta scelta.

Al di là del caso Giorgetti, d’altronde, c’è almeno un secondo motivo per dubitare dell’attuale solidità della leadership salviniana nel campo leghista e, più vastamente, nella coalizione di centrodestra. Ed è l’opa ostile – sotto mentite spoglie – che nei confronti della Lega sta conducendo, con le sue residue forze e risorse, Silvio Berlusconi. Cercando di far dimenticare le ancora recenti esternazioni sulla risibilità delle pretese di Salvini (e Meloni) di ascendere in futuro alla presidenza del Consiglio, l’ex Cavaliere è tornato, nei confronti degli alleati, alla prediletta strategia del sorriso: incontri, cene, strette di mano, promesse di eterna sintonia. Chiedendo in cambio il sostegno alla tanto desiderata, anche se azzardata, candidatura alla presidenza della Repubblica.

L’opa di Berlusconi

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A prima vista, la richiesta – subito accolta – appare niente più dell’ambizione a un omaggio formale, peraltro probabilmente destinato a non sfociare in nessun risultato concreto. Ma a ben guardare, dietro di essa si profila uno scenario più complesso. Che vede in primo luogo un implicito riconoscimento alla persistenza della sua leadership nella coalizione, che segna una volta di più l’invocato primato della molto minoritaria componente liberale rispetto a due partner che, insieme, potrebbero valere il 40 per cento del corpo elettorale.

E accredita a tutto il centrodestra un profilo atlantista, filo Unione europea, antipopulista e antisovranista che è, di fatto, la proiezione delle posizioni di Forza Italia. Cioè di un partito che nel frattempo, a opera della sua ala “progressista”, moltiplica i distinguo e gli scontri con Lega e FdI su molti temi: dal ddl Zan con i suoi risvolti di accettazione della gender theory all’atteggiamento verso l’immigrazione, dai rapporti con la Russia alla condanna dei manifestanti anti-green pass e via dicendo.

Insomma, non essendo più ipotizzabile nessun ritorno di Forza Italia, Udc e addentellati alla guida della coalizione per un’evidente sproporzione di numeri elettorali, Berlusconi cerca di convertire la Lega, e forse anche qualche piccola frangia di Fratelli d’Italia, alla linea che il partito da lui fondato e diretto ha sempre rappresentato. Giorgetti è, in questa prospettiva, la sua sponda ideale.

E Draghi potrebbe essere il convitato di pietra di questa operazione, il pretesto per renderla operativa e duratura. L’insistenza bilaterale sulla necessità e urgenza di un ingresso del Carroccio nel Partito popolare europeo, e sulla conseguente rottura dei rapporti con gli esponenti del fronte nazionalpopulista continentale, da Marine Le Pen alla Fpö austriaca e ai fiamminghi del Vlaams Belang, sino all’Alternative für Deutschland, così ostili all’amatissima Angela Merkel, è al momento il perno dell’operazione, di cui il completo allineamento alle posizioni degli Stati Uniti nel loro conflitto con la Cina, anche dopo il passaggio di consegna da Donald Trump a Joe Biden, ha costituito l’indispensabile premessa.

Forse consapevole, per una volta, dell’accerchiamento a cui lo si sta sottoponendo, Salvini ha abbozzato negli ultimi tempi alcune contromosse, cessando di praticare la tattica dello struzzo di fronte alle punture del suo vice e ribadendo la volontà di guadagnarsi uno spazio di azione e una legittimità alternativi in campo europeo, lavorando alla costituzione di un gruppo allargato «di centrodestra», ma di fatto sovranista, che avrebbe come riferimento l’ungherese Viktor Orbán e il polacco Mateusz Morawiecki (che, dal canto loro, hanno ricevuto negli ultimi tempi vari esponenti sia nazionalpopulisti che conservatori, come Marine Le Pen e Santiago Abascal).

L’impresa non è agevole, anche perché crescono i dubbi sulla possibilità che il premier ungherese possa, alle prossime elezioni, conservare il suo mandato. Vedremo se si concretizzerà o resterà alle cronache come l’ennesimo ballon d’essai di un leader in difficoltà.

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