All’uscita dall’incontro con il presidente del Consiglio Matteo Salvini parla di una «sostanziale sintonia e condivisione» con Draghi «per ciò che si è fatto al governo in questi tre mesi e ciò che si farà. Stiamo dando ottimi risultati agli italiani». Esibisce entusiasmo: un confronto «a 360 gradi» sugli «ottimi risultati del governo», «abbiamo perso di vista l’orologio» e così è passata un’ora e mezzo, dice, «un confronto bello e utile», sembrano le parole di Giorgia Meloni della scorsa settimana. Da palazzo la comunicazione invece è scarna, come di consueto: il presidente ha ricevuto il leader della Lega per un colloquio «cordiale» nel corso del quale «si è discusso della situazione economica del paese, che è in ripresa, e delle riforme».

Salvini è tornato favorevole al blocco dei licenziamenti: «I settori che crescono, penso all'industria e all'edilizia, devono tornare ad essere liberi di agire sul mercato. E poi i settori che hanno sofferto di più, penso al commercio, ai servizi, al turismo, avranno fino a ottobre per riorganizzarsi».

Oltre alla rassegna delle riforme in cantiere, Salvini deve spiegare a Draghi il senso delle sue ultime mosse. Per esempio deve assicurare che i referendum sulla giustizia non sono una zeppa contro quelle che sta cercando di portare avanti la ministra Marta Cartabia in parlamento. E poi c’è il caso che ha agitato il centrodestra nel week end. La «suggestione» della federazione con Forza Italia, o meglio il partito unico, in due giorni si è già parecchio sgonfiata. Stasera si riuniranno gli azzurri della camera, domani quelli del Senato, ma ora «Berlusconi stesso frena», come assicurano a più voci quelli dell’ala liberal. Dal forum organizzato da Bruno Vespa a Manduria, nella masseria di famiglia, la ministra Mara Carfagna dice genericamente sì «a un centrodestra unito, ma meglio se plurale e rispettoso delle diversità identità». E comunque un’operazione come quella proposta da Salvini «non si fa con un blitz», modalità che si adotta «quando si vuole fare un’operazione poco trasparente». Carfagna dice di aver parlato con Berlusconi e di essere sicura che condivide le sue «perplessità». Ma sa che ormai l’uomo è molto condizionato dall’ala filosalviniana – Antonio Tajani e Licia Ronzulli –, dunque «magari sarò smentita nel giro di poche ore». Le sue perplessità sono comunque condivise dagli altri due ministri forzisti, Maria Stella Gelmini e Renato Brunetta. Alla nascita del governo, i tre sono stati scelti direttamente da palazzo Chigi, proprio perché in caso di tensioni politiche fornivano garanzie di fedeltà all’istituzione, più che agli ordini di scuderia del vecchio leader o di quello eventualmente nuovo.

Le mosse del leghista sono percepite come scomposte anche che da FdI che a taccuini chiusi parla di tentativi «disperati» di mantenere una leadership in fase calante. Da una parte Salvini prova a ripulire la sua immagine dalle scorie autarchiche, da quelle del Papeete e dalle improvvisazioni dei giorni di «aprire tutto». E magari a Bruxelles punta a entrare nel Partito popolare dopo aver invano cercato di fare l’operazione opposta, e cioè organizzare un gruppone dei sovranisti. Ma l’improvvisazione non si improvvisa, neanche in campo europeo. Lo spiega Giovanni Toti, capo della neonata formazione «Coraggio Italia», porto sicuro dei forzisti in caduta libera. È tattica o strategia?, si chiede il presidente della Liguria. Perché se fosse strategia, per fare una federazione vera e non una semplice annessione di ciò che resta di Forza Italia, «occorre sciogliere alcuni nodi. Stiamo parlando di una realtà che entrerà nel Ppe? Che rapporti avrà con il centrodestra che resta all’opposizione? Quali sono i meccanismi di democrazia interna? Come ci si conta tra le varie anime del partito?».

Salvini convince solo il drappello azzurro a caccia di rassicurazioni sul futuro. Tutti gli altri, quelli che si sentono cacciati nella «bad company», sottolineano le contraddizioni della strada unitaria: ieri il leader leghista ha annunciato il ritorno in piazza, con le insegne del proprio partito. L’appuntamento è il 19 giugno nella Capitale, davanti alla Bocca della verità: una piazza che è il rifugio rassicurante di chi non è certo di trascinare le folle.

All’unità finge di credere invece l’ala dei leghisti governisti. Ieri, ancora dall’incontro in masseria officiato da Vespa, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia ostenta ottimismo: «Se guardiamo i sondaggi abbiamo un centrodestra potenzialmente vincente. La cosa migliore da fare è mettersi d’accordo. Se gli elettori vedono una coalizione dove si litiga vanno da un’altra parte». Garavaglia allude anche a un possibile maggiore «potere contrattuale» nel governo. È anche questo che Draghi ha cercato di capire da Salvini. Ma c’è un problema, non di poco conto: se dovessero nascere nuovi gruppi unitari si dovrebbe procedere al ricalcolo dei pesi dei partiti e dei posti da ministro. E i ministri forzisti, abbiamo già visto, non starebbero al gioco del leghista. Insomma, i governisti della Lega lasciano smazzare a Salvini il tentativo di trasformare la Lega in una vera forza di governo, affidabile per il futuro Colle e per Bruxelles: tanto non sarà lui a guidarla. Come Mosé, Salvini potrà vedere solo di lontano la terra promessa.

Nebbia nelle città

E infatti il riflesso della mossa confusa si sente sulle amministrative. Sui candidati delle grandi città, Roma e Milano, la fumata bianca è ancora lontana. Il vertice romano previsto per oggi fino all’ultimo viene dato per sconvocato. La scelta cadrà su nomi civici. I «politici» del resto sono solo proposte di bandiera: Maurizio Gasparri, che si autodefinisce «l’usato sicuro» di FI, non è mai stato in corsa davvero. Da commissario del partito nella Capitale annunciato l’ingresso nelle sue file dell’ex Cinque stelle Marcello De Vito, presidente del Consiglio comunale capitolino tuttora sotto inchiesta per corruzione e che oggi rivela che Berlusconi «aveva sempre rappresentato le mie idee e la mia cultura prima di entrare nel M5s». Il lancio del conduttore radiofonico e professore Enrico Michetti è ormai questione di giorni: e così il centrodestra, che sulla carta ha i numeri per vincere nella Capitale, di fatto abbandona la partita.

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