Solo il governo Draghi può salvarci dal girone infernale della regolarizzazione del 2020, decisa con molte resistenze interne alla stessa maggioranza dal governo precedente. Si tratta di un provvedimento limitato ai caregiver familiari e ai braccianti, rigido e vessatorio nelle norme.

Non v’è da stupirsi dunque se sin dal suo inizio, a giugno 2020, le cose non hanno funzionato, lasciando gli operatori alle prese con un’ubriacatura di prassi e di discipline contrastanti tra loro; e con vaste lacune cui nessuno, né la politica né la dirigenza pubblica coinvolta, è ancora riuscito a porre rimedio.

Il provvedimento

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La disciplina del provvedimento (senza in alcun modo adattarsi alle esigenze derivanti dalla pandemia) è rimasta quella che già nelle ultime regolarizzazioni, dal 2002 a oggi, aveva determinato l’inceppamento della macchina, generando impedimenti burocratici e lunghi contenziosi risolti talvolta solo grazie a provvedimenti legislativi successivi, correttivi dei precedenti.

Un’idea nuova a onor del vero è stata introdotta: per la prima volta non ci si è limitati alla regolarizzazione di lavoratori già impiegati, o almeno destinatari di una proposta irrevocabile di assunzione, ma si è consentito di regolarizzare anche ipotetici futuri lavoratori, in verità già impiegati in nero, purché si offrisse loro un impiego in data da destinarsi fino al giorno stesso della convocazione in prefettura, con la quale l’intera procedura giunge a conclusione.

Tuttavia tale innovazione – a causa del prevedibile dilatarsi dei tempi – ha consegnato i lavoratori all’arbitrio di uno o forse anche due anni di lavoro in prova senza contratto, talvolta portando al rigetto della domanda a seguito di un successivo venir meno della disponibilità del datore di lavoro.

A diciotto mesi dall’invio delle prime domande, solo una minoranza dei richiedenti è stato convocato in prefettura, specie nelle grandi città. L’inavvedutezza del legislatore (cui va comunque il merito di avere preso una decisione coraggiosa rispetto all’immobilismo dei colleghi europei) si è accompagnata alla disordinata e lenta pignoleria con cui alcune prefetture hanno già respinto molte domande pervenute, talvolta perfino contravvenendo alle diverse direttive provenienti dal ministero dell’Interno.

Le prospettive per i molti che ancora attendono di essere convocati non sembrano dunque rassicuranti, mettendo a dura prova le loro speranze di sicurezza e legalità.

Testimonianze

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Facciamo degli esempi veri con nomi cambiati. Edith, domestica nicaraguense di venticinque anni ancora in attesa della convocazione in prefettura, spera di non essere respinta. Da tre anni Edith lavora con la famiglia presso cui alloggia. Da giugno 2020, quando ha ottenuto che la famiglia chiedesse la regolarizzazione, Edith si è trasformata in una yes-worker riguardo a qualunque cosa le venga chiesta di giorno o di notte.

Peccato che il “futuro contratto” (non ancora dichiarato all’Inps: Edith continua a lavorare in nero) indichi l’orario di 25 ore a settimana e che i datori di lavoro non intendano dichiarare che lei vive in casa, dato che le ore dichiarate sono così poche. Per questa ragione il giorno della convocazione in prefettura a Edith mancherà il “certificato di idoneità alloggiativa dell’abitazione utilizzata dalla lavoratrice” e quindi la domanda di regolarizzazione verrà bocciata.

Edith ancora tutto questo non lo sa (fa la colf, non la giurista) ma anche se lo sapesse non potrebbe rimediare perché, tra l’altro, nessuno affitta un appartamento a una ragazza straniera senza permesso di soggiorno e senza contratto di lavoro. E senza la titolarità di un contratto di affitto non si può richiedere alcun certificato di idoneità alloggiativa.

È stata invece già bocciata la domanda di regolarizzazione di Svitlana, assistente al domicilio per quattro anni di un’anziana non più autosufficiente, già professoressa di latino e greco. La domanda è stata presentata il 16 giugno 2020 tramite un caf che ha consigliato di attendere per l’assunzione il giorno della convocazione in prefettura.

Purtroppo però l’anziana professoressa è morta il 12 settembre 2021 e quindi la prefettura, con provvedimento del 5 ottobre 2021, ha respinto la domanda spiegando alla malcapitata che «la signora da morta non può più stipulare un contratto di lavoro e non risulta che l’abbia fatto da viva». Svitlana si dispera; e con lei i figli dell’anziana che le vogliono bene e le sono grati.

Gerarta sembrava più fortunata di Svitlana perché il figlio dell’anziana che assiste ha ufficializzato il rapporto di lavoro già il giorno dopo l’inoltro della domanda di regolarizzazione, avvenuto il 25 luglio del 2020. Finalmente, il 10 novembre scorso Gerarta è stata convocata in prefettura assieme al datore di lavoro.

Sembrava un giorno felice ma la domanda è stata bocciata perché Gerarta a fine agosto 2021 ha preso dieci giorni di ferie per recarsi dalla madre in Albania che aveva subito un ricovero, gettando nell’angoscia la figlia emigrata in Italia. Sostiene la prefettura che anche un’assenza breve dall’Italia, dopo l’8 marzo 2020 e fino alla conclusione del procedimento di regolarizzazione ne pregiudica per legge l’esito positivo.

È stata bocciata anche la domanda di regolarizzazione presentata dai datori di lavoro di Joy, giovane filippina che convive con la sorella maggiore nell’appartamentino preso regolarmente in locazione da quest’ultima.

Joy e la sorella Genny pesano in due settantacinque chili e l’una sopra l’altra non arrivano a tre metri d’altezza. L’appartamentino è molto grazioso, tenuto bene e non vi manca nulla, ma purtroppo non raggiunge i trenta metri quadri calpestabili, perciò l’ufficio tecnico del comune ha rifiutato la certificazione dell’idoneità alloggiativa, il che costituisce causa inemendabile di rifiuto della domanda di regolarizzazione fatta per Joy.

È stata invece accolta a fine ottobre 2021 la domanda di Isabel, assistente a lungo orario di una bambina disabile. Una bella notizia che però si accompagna a un nuovo dolore.

Isabel infatti è venuta in Italia cinque anni fa con la figlia Evelyn, che al momento della domanda di regolarizzazione a giugno 2020 era ancora minorenne, ma al momento della convocazione in prefettura aveva ormai già raggiunto la maggiore età. Un compleanno maledetto perché in quanto maggiorenne non potrà essere contemplata dalla domanda di rilascio del permesso di soggiorno della madre.

Evelyn vede il futuro davanti a sé crollare: ha appena finito il liceo con ottimi voti e vorrebbe tentare l’ammissione a medicina o ai corsi per infermieri, ma senza il permesso di soggiorno dovrà rimanere a casa senza fare nulla o andare a lavorare in nero rischiando l’espulsione dall’Italia.

Fallimento generalizzato

Nessuno, in effetti, sembra preoccuparsi del fatto che tanti lavoratori e lavoratrici che attendono la regolarizzazione vivono in Italia assieme ai loro figli, molti dei quali aspettando la convocazione in prefettura della madre o del padre, sono divenuti o diverranno maggiorenni, cioè adulti e quindi clandestini.

Sono storie emblematiche che spiegano le statistiche già chiare, anche se ancora molto parziali, del fallimento generalizzato di una regolarizzazione che coinvolge 207mila colf e badanti, in prevalenza donne, e i loro figli.

Per questo, prima che sia davvero troppo tardi, il governo Draghi dovrebbe fare nei riguardi della regolarizzazione approvata sotto il governo Conte II, ciò che nel 2013 fece il governo Letta a riguardo della regolarizzazione approvata l’anno precedente, riuscendo a raddrizzarne le sorti (bilancio finale di 116mila domande accolte su un totale di circa 135mila).

Urge un decreto correttivo che, basato sulla regola del buon senso, consenta un esito positivo delle domande di regolarizzazione di tutti gli stranieri che stiano lavorando o abbiano effettivamente lavorato, inclusi quelli rimasti senza lavoro dopo che i caf avevano consigliato al datore di lavoro di attendere prima di effettuare la comunicazione di avvio del rapporto di impiego.

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