Quando qualche giorno fa hanno arrestato due carabinieri infedeli beccati a rubare contanti e gioielli durante perquisizioni illegali, marescialli e colonnelli hanno capito che non era bastato chiedere un miracolo alla Virgo Fidelis, la patrona dell’Arma festeggiata il 21 di novembre.

Le loro preghiere non erano state esaudite, ed era chiaro che il 2020 era destinato a chiudersi com’era principiato: appuntati in manette, colonnelli indagati, scandali giudiziari a ripetizione.

Prima che l’ennesimo annus horribilis si concluda, l’ultima speranza tra i centomila militari è che il governo faccia loro un regalo di Natale all’altezza delle aspettative. Scegliendo il candidato migliore alla successione del comandante generale in scadenza Giovanni Nistri. Un uomo nuovo che – dopo un altro triennio passato tra buoni propositi e promesse avariate – avrà l’immane compito di traghettare i carabinieri fuori dalle secche di una delle crisi di sistema più gravi della loro storia bisecolare. Che dura da almeno un decennio – l’omicidio di Stefano Cucchi è l’evento spartiacque – e che, se non affrontata con risposte radicali, rischia di divorare un Corpo già martoriato. Sarebbe un delitto: per le potenzialità di un organismo da sempre fiore all’occhiello del paese e per il declino che rischierebbe l’intero reparto della nostra sicurezza nazionale.

Il regno degli scandali

Partiamo dai fatti. Per la Benemerita anche gli ultimi dodici mesi sono stati una via crucis di imbarazzi. L’elenco delle vergogne è lungo: a novembre il generale in pensione Saverio Cotticelli, da poco premiato dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, su proposta di Nistri, con la croce d’oro al merito, si dimetteva per manifesta incapacità da commissario alla sanità calabrese. Mentre delirava in tv di piani Covid mai fatti e di possibili complotti, i pm della procura di Roma chiedevano per l’ex comandante generale Tullio Del Sette (in carica tra il 2015 e il 2018) una condanna a 14 mesi di carcere per favoreggiamento e rivelazione del segreto d’ufficio in uno dei filoni del caso Consip.

Se a gennaio cinque carabinieri venivano arrestati dalla Dda di Napoli per corruzione, nei mesi successivi – come racconta un generale a tre stelle – «ogni settimana ha portato una pena»: marescialli in galera perché nascondevano refurtiva e depistavano le indagini, luogotenenti finiti nei guai in quanto collezionisti di armi da guerra illegali, le notizie sul cold case di Serena Mollicone, la ragazza forse uccisa in una caserma ad Arce. «A Potenza un’inchiesta per truffa e peculato ha fatto saltare il comandante di un nucleo, mentre qualche giorno dopo le analisi del Ris di Messina hanno incastrato per un presunto omicidio un nostro collega siciliano», ricorda l’ufficiale.

Vicende che si affiancano ad altre, mediaticamente ancora più rilevanti. Che hanno mostrato alla politica e all’opinione pubblica pecche e disorganizzazioni strutturali dell’Arma, da tempo incapace di selezionare uomini validi alla base e classe dirigente all’altezza in testa: a storie giudiziarie come quella l’ex maggiore del Noe Giampaolo Scafarto (di recente rinviato a giudizio per falso e depistaggio, sempre per lo scandalo Consip) e del suo sodale Alessandro Sessa (colonnello arrestato tre mesi per aver fornito ad altri imprenditori indagati per estorsioni aggravate da metodo mafioso informazioni e «consigli» su come proteggersi dalle intercettazioni), s’è aggiunta quella, devastante, della caserma Levante di Piacenza.

Un abisso di violenza che ha macchiato l’onore del Corpo, finito di nuovo in prima pagina dopo la morte di Stefano Cucchi e lo stupro alle due turiste americane avvenuto a Firenze. Secondo l’accusa dei magistrati lombardi, una sporca dozzina di carabinieri per tre anni ha torturato e pestato immigrati e soggetti fragili, compiuto orrori e arresti illegali, trafficato droga e organizzato festini hard con prostitute fin dentro il presidio militare, che da pochi giorni – per provare a cancellare le infamie dalla memoria collettiva – ha cambiato nome.

Le oscenità hanno messo in dubbio, per l’ennesima volta, la qualità del sistema di reclutamento del corpo, e l’assenza di anticorpi necessari a prevenire (e nel caso reprimere) fenomeni criminali interni di un’istituzione dello stato che dovrebbe essere esempio di integrità e rispetto della legge.

La banda ha agito indisturbata sotto tre comandanti provinciali diversi.

Nessuno paga

Nessuno per ora ha pagato il fio per il mancato controllo: il colonnello Michele Piras, comandante a Piacenza da settembre 2018, lasciò dopo un solo anno per seguire la neo ministra Paola De Micheli al ministero dei Trasporti. Dopo lo scandalo è stato spostato alla scientifica, ma ora potrebbe trasferirsi ai servizi segreti del Dis.

Il pari grado Stefano Savo, che è arrivato a Piacenza pochi mesi prima dell’inchiesta, è stato incardinato nella Legione Umbria, senza incarichi specifici. Il colonnello Corrado Scattaretico, comandante provinciale di Piacenza dal 2015 al 2018, pur se indagato per favoreggiamento è stato invece premiato con un incarico di addetto per la Difesa all'ambasciata italiana in Burkina Faso.

Il compenso stimato è quello del consigliere d’ambasciata: quasi 15 mila euro al mese circa, tra stipendio e indennità varie, per quattro anni. L’incarico è cominciato il 24 settembre.

Dal comando generale spiegano che non c’è nulla di strano: «La decisione di mandare Scattaretico in Africa era stata presa prima della vicenda delle presunte violenze in caserma». La scelta, però, non è piaciuta alla massa dei sottufficiali, che da tempo contesta ai vertici la cattiva gestione.

Anche Nistri, il comandante uscente, è finito nel mirino delle critiche e dei veleni interni. Atteso alla stregua di un Salvatore dopo i difficili anni dell’era Del Sette, il generale si avvia verso un fine mandato amaro. Stimato da Matteo Renzi e Dario Franceschini, che lo aveva voluto anni prima come commissario straordinario a Pompei, gli scandali hanno martoriato anche il suo triennio. Nistri non è riuscito a mettere ordine in un Corpo dilaniato dalle divisioni tra fazioni opposte (divise tra seguaci dell’ex numero uno Leonardo Gallitelli, delsettiani e nistriani) e da un astio crescente – come ha correttamente scritto Carlo Bonini su Repubblica – tra gli appuntati che popolano le cinquemila stazioni sparse per l’Italia e gli ufficiali che guidano la macchina.

A Nistri, che Gallitelli aveva promosso ma poi non valorizzato nella catena di comando, la base sembra imputare non solo un carattere «glaciale e poco empatico» ma un sostanziale fallimento dell’autoriforma. Invece di puntare sull’efficienza meritocratica, Nistri è accusato di aver accentrato la gestione del potere, condiviso con pochi fedelissimi tra cui il capo di Stato maggiore Teo Luzi, il numero uno della prestigiosa scuola ufficiali, Claudio Domizi, e il generale Roberto Riccardi. È un fatto che Nistri, anche perché spaventato da quanto accaduto nel recente passato, abbia evitato di delegare compiti di rilievo.

«Non abbiamo alcuna autonomia, è frustrante» è la lagnanza nelle chat WhatsApp dove si sfoga la truppa, nelle sale dei comandi regionali e, pure, negli uffici ovattati di viale Romania a Roma dove fonti autorevoli che lavorano al comando generale da 12 anni aggiungono che Nistri concede spazio solo «a chi la pensa come lui», con un eccesso di centralismo che ha accresciuto il malcontento di un esercito «privato di quelle ambizioni necessarie per migliorarsi. Lei tre anni fa ha scritto che eravamo precipitati dopo le vicende giudiziarie del 2017 al nostro Anno Zero. Per essere ottimisti, oggi siamo all’Anno Uno».

Potere debole

Altri colonnelli vicini a Nistri sottolineano al contrario che, visto il livello dei problemi ereditati dalle gestioni precedenti, il generale ha fatto tutto quello che si poteva fare. In effetti la stima per l’ufficiale, da parte delle istituzioni, Quirinale compreso, resta immutata: mai sfiorato da uno scandalo, sempre irreprensibile nel comportamento pubblico, è stato Nistri il primo a mettere faccia nel caso Cucchi, scrivendo una lettera alla sorella Ilaria e costituendo l’Arma parte civile nel processo contro i colleghi. Un passo coraggioso che gli ha certamente inviso chi, nella Benemerita, preferisce il codice dell’omertà alla trasparenza e all’onestà.

Arresti e polemiche hanno però evidenziato che pure sotto il suo governo il sistema di controllo interno è rimasto quantomeno inefficace, come i ritardi nel cambio generazionale: «Nistri ha preferito andare in continuità con l'era di Del Sette», il refrain, «puntando molto sul rispetto ferreo delle disposizioni interne, delle gerarchie e dell’anzianità.

Costretto a guardarsi dai nemici interni, Nistri sarebbe poi stato colpito da una sindrome di accerchiamento che si è riverberata anche nei rapporti con l'esterno: figure apicali del governo sanno bene che le interlocuzioni con i capo delle altre forze di sicurezza, in primis Polizia e Guardia di finanza, sono cortesi, ma freddi. Una reale collaborazione tra i corpi non sarebbe mai cominciata, nonostante l’Arma ne abbia un gran bisogno: gli scandali, compresi quelli sulle fughe di notizie in merito a indagini delicate, hanno generato intorno ai carabinieri un’aurea (probabilmente immeritata) di “inaffidabilità”. Non è un caso, sostengono alcuni magistrati di peso di Napoli, Milano e Roma che da tempo le procure escludano i militari dalle inchieste più rilevanti sulla pubblica amministrazione, preferendo delegare altri reparti investigativi, nuclei della Finanza su tutti. Un fatto che ha ridotto il potere dell’Arma sui decisori politici: piaccia o meno, maneggiare informazioni sensibili è fondamentale per l’influenza di un corpo di sicurezza sugli altri apparati dello stato.

«A oggi siamo considerati mera manovalanza, solo il Ros e poche eccellenze sul territorio (come i segugi di via in Selci a Roma, o il nucleo investigativo di Reggio Calabria, ndr) gestiscono indagini di livello nazionale. Speriamo che questo andazzo s’inverta con l’arrivo del nuovo comandante generale», chiosa più di un graduato.

Scelta decisiva

Nelle caserme friulane e toscane, come nelle stazioni di Caltanissetta o di Alba, l’attesa è febbrile. Il governo si appresta a nominare il successore di Nistri entro pochi giorni, tutti sanno che la scelta sarà decisiva per i destini collettivi.

I candidati con maggiori chance sono quattro. In pole c’è Teo Luzi, il braccio destro di Nistri che da tempo ha assicurato ai ministri competenti che porterà discontinuità. Ma sperano ancora sia il generale Angelo Agovino, oggi vicedirettore dell’Aise, sia il vicecomandante Vincenzo Maruccia. Più indietro nei sondaggi (fatti a braccio da chi scrive) c'è il comandante dell’Interregionale Vittorio Veneto, Enzo Bernardini.

Tutti gli aspiranti subito dopo l’estate si sono sottoposti a un'antica pratica: il giro delle sette chiese nei palazzi che contano. È la politica che proclama il leader che guiderà i carabinieri nei prossimi tre anni: visite formali, incontri privati e pranzi con ministri e consiglieri sono serviti ai quattro per cercare appoggi, e per tastare le probabilità di successo.

Partiamo da Luzi, che vanta gli alleati di maggior peso. Il capo di stato maggiore può contare, in primis, su colui che ha maggior voce in capitolo nella scelta finale. Cioè il titolare del ministero della Difesa, dentro cui è collocata l’Arma. Lorenzo Guerini, che in barba alle speranze dei renziani su un possibile rimpasto è ben saldo, predilige Luzi alle altre stellette: ne elogia spesso il carattere aperto, l’esperienza maturata negli uffici della capitale, la giovane età.

Anche Salvatore Luongo, generale di divisione e influente consigliere di Guerini, nonostante i rapporti non facili con Nistri (che provò nel 2019 a spostarlo dall’ufficio legislativo della Difesa) crede che Luzi possa essere l'uomo giusto per il rilancio della forza armata. Non sono i soli: classe ‘59, primo del suo corso all’accademia, Luzi è supportato anche da Franceschini (Nistri ha promesso al ministro della Cultura che il suo fedelissimo farà più che bene), dal leghista Giancarlo Giorgetti e soprattutto da Ugo Zampetti, potente segretario generale del presidente Sergio Mattarella.

Il favorito

La partita sembra quasi chiusa, tanto che ufficiali considerati vicini a Luzi stanno già festeggiando: da Mario Cinque, candidato a essere nuovo capo di stato maggiore (è molto stimato anche da Agovino), fino ai nistriani e fedelissimi doc come il maggiore Gerardina Corona, distaccata a palazzo Chigi al tempo del Conte I e astro in ascesa al comando generale.

Qualcuno, però, teme che l’avanzamento dell’ex comandante della Legione Lombardia possa essere un errore strategico. Non per le competenze indiscusse, ma per questioni che impedirebbero quella rivoluzione profonda e duratura necessaria a “recuperare” l’Arma. «Con Luzi politiche di discontinuità non sarebbero affatto ovvie, essendo stato lui il playmaker di trasferimenti e delibere mal viste dalla base durante il mandato di Nistri», dice un funzionario di primo livello del ministero dell’Interno. Aggiungendo, poi, un dato cruciale, ma conosciuto solo agli addetti ai lavori: Luzi sarebbe l’unico comandante di alto livello candidabile per il mandato 2023-2026. «Degli pretendenti attuali, lui è il più giovane, il solo che tra tre anni non sarà andato in pensione. Per il bene dei carabinieri sarebbe più logico preservarlo per il prossimo giro, perché se diventa comandante adesso, tra i papabili alla sua successione non c'è nessuno che avrà un curriculum all'altezza del compito. Bisogna dunque avere visione strategica di lungo respiro, e preparare una staffetta», chiosano dagli uffici del ministro Luciana Lamorgese, un’altra kingmaker dell’investitura che verrà.

Un ragionamento forse anodino, a cui Luzi e i suoi supporter non vogliono piegarsi. «Solo bizantinismi per indebolirlo», pensano. Ma è un fatto che i vertici dell’Arma (a causa di politiche discutibili decise da Gallitelli in poi) sfornerà generali di corpo d'armata di livello assoluto solo dal 2025 in poi: dagli già citati Luongo e Cinque, fino ai generali Antonio De Vita e Marco Minicucci, tutti i possibili Capitan Futuro tra tre anni non avranno sufficienti galloni per poter scendere in campo per la leadership.

La guerra dei partiti

Dubbi e osservazioni di una minoranza che, insieme alle divisioni dei partiti, mantiene uno spiraglio aperto a soluzioni alternative. Ecco perché Vincenzo Maruccia, che nel mazzo dei candidati è quello con più anzianità, esperienza e comandi di prestigio, non si è ancora ritirato negli spogliatoi. Ex capo di stato con Del Sette, sfiorato ma uscito illeso dal caso Consip, oggi è vicecomandante generale. Apprezzato dal segretario del Pd Nicola Zingaretti e da Pierluigi Bersani, è accreditato di buoni rapporti con pezzi da novanta dell’opposizione (come Giorgia Meloni e il leghista a capo del Copasir Raffaele Volpi) ed è assai stimato da importanti consiglieri della presidenza della Repubblica. Come Daniele Cabras, che prediligerebbe nella scelta finale il principio di anzianità. Maruccia promette – nel caso avrà l’onere e l’onore della poltrona di viale Romania – lacrime e sangue, e di rivoltare la piramide di comando come un calzino.

Anche Agovino non si sente ancora fuori dalla partita. Un altro suggeritore di Mattarella, Rolando Mosca Moschini, lo considera “tecnicamente” il più bravo del quartetto. Uomo di visione e di eccellenti relazioni, scuola gallitelliana, è stato per anni a capo degli uffici del personale e poi dell’accademia, e conosce a menadito pregi e difetti degli 3.400 ufficiali in servizio. Luigi Di Maio e Giuseppe Conte lo considerano il meccanico più attrezzato ad aggiustare il motore in panne del Corpo, e lo sponsorizzeranno fino alla fine. I motivi sono però diversi: il ministro degli Esteri lo considera un esperto di cui può fidarsi, tanto da averlo prima imposto alla vicedirezione dell’Aise e poi caldeggiato per una futura promozione alla guida all'Aisi. Il premier, invece, sa che se Agovino diventasse comandante dei carabinieri avrebbe mani ancora più libere nel giro di nomine nei servizi segreti, il comparto di cui conserva gelosamente le deleghe (vedi box in pagina).

Se Agovino rischia di pagare l’eccessiva vicinanza ai grillini, politicamente molto più deboli di un anno fa, il generale Bernardini, numero uno dell’Interregionale di Padova, è il classico outsider. Buoni uffici con la Lega e con la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, graduato intelligente e colto («quasi uno studioso del diritto», raccontano gli amici) ha l’appoggio di un pezzo del sindacato interno, il Cocer. Ma potrebbe farcela solo se Guerini, Lamorgese, Conte e il Quirinale mettessero veti incrociati sui favoriti. «Lui ci terrebbe tantissimo, operativamente sarebbe una garanzia di qualità, ma la sua nomina ad ora è la meno probabile», ammettono dal suo entourage.

O rivoluzione o morte

Vedremo. È certo che chiunque prenderà il posto di Nistri dovrà cambiare musica, e dovrà farlo in tempi record. Per evitare nuovi eventi negativi e traumi, sarà imperativo per i vertici riallacciare il dialogo con appuntati, marescialli e i capi delle stazioni. La base a torto o ragione si sente da tempo sfruttata dalle alte gerarchie, considerate lontane, formate da privilegiati chiusi in una torre d’avorio. Spingere sul merito sarà basilare, come penalizzare uomini capaci solo perché troppo vicini a fazioni avverse, dovrà essere considerato peccato mortale.

Luzi, Maruccia, Bernardini e Agovino giurano ai loro dante causa che smonteranno e rimonteranno su nuovi principi il comando generale. Ma sanno pure che, se chiamati, dovranno riscrivere regole d'ingaggio che appaiono ormai vetuste. Sia nel campo dell'arruolamento, sia in quello della selezione degli ufficiali, sia nell'organizzazione generale e nel funzionamento delle stazioni. Diventate agli occhi dei cittadini non più riferimento primario della comunità, ma zone franche dove (pochi) carabinieri infedeli hanno macchiato l'onore di tutti.

«Dopo Tangentopoli, che ha coperto di discredito la Finanza, le fiamme gialle hanno fatto i conti al loro interno, con vigore. Lo stesso ha fatto la polizia in seguito a Genova e agli abomini di Bolzaneto. A dieci anni dalla vicenda Cucchi i carabinieri devono finalmente guardarsi dentro, e fare tutto il necessario per autoriformarsi» ragiona un ministro autorevole del Partito democratico. La strada non sarà semplice: effettuare un reclutamento mirato senza imbarcare chiunque voglia un posto fisso, costruire sistemi di audit regionali simili a quelli degli affari interni americani, punire severamente chiunque usi violenza o non righi dritto, a partire dagli ufficiali omertosi che ancora proteggono le mele marce per un insano spirito di caserma.

«Serve un radicale cambio di cultura, di mentalità». Speriamo che la Virgo Fidelis aiuti chi di dovere a scegliere il leader migliore alla rivoluzione. Un miracolo che serve non solo ai carabinieri, ma ha tutto il paese.

 

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