A Bruxelles, mentre Giorgia Meloni porta a casa un altro paniere mezzo vuoto dal Consiglio europeo, Elly Schlein riceve l’accoglienza dei leader e dei primi ministri socialisti. E rappresenta, nella stessa casa dell’Europa, tutta un’altra Italia rispetto a quella della premier della destra italiana.

Schlein è al suo esordio da segretaria Pd, anche se sono in molti a conoscerla dal suo mandato da europarlamentare, e a ricordare l’impegno per la riforma del regolamento di Dublino e per la transizione ecologica.

Di questo parla con il commissario europeo al Green Deal, l’olandese Frans Timmermans, e con quello all’Economia, l’italiano Paolo Gentiloni, suo compagno di partito. Ai due esprime le sue preoccupazioni, che poi ripete in un lungo punto stampa (forse per smentire quello che si scrive in Italia, e cioè che svicola dai cronisti): «Il Pnrr è un’occasione straordinaria per il rilancio del Paese, ma la destra sembra dimenticare le giuste direzioni. Oltre a chiedere flessibilità, non si capisce questo governo dove voglia portare questo strumento. Rischiamo di non mettere a terra le riforme».

Di fatto Schlein fa il controcanto alle parole della premier italiana, anche prima della conclusione del vertice: «Curioso che Meloni rivendichi una nuova centralità del tema immigrazione, quando per ora, dalle bozze che circolano sulle conclusioni del Consiglio europeo ci sono poche righe senza misure concrete». La destra «fa sempre domande sbagliate, qui nell’Ue. Perché non ha il coraggio di affrontare i suoi alleati nazionalisti e chiedere maggiore solidarietà e condivisione sull’accoglienza, a Orbán e ai suoi alleati?». Quello che serve è «una Mare Nostrum europea, una missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo». Non è quello che Meloni chiede al Consiglio. Del resto la proposta non piacerebbe agli altri stati europei. Schlein chiede anche che la «protezione temporanea» concessa fin qui solo ai profughi ucraini sia attivata anche per gli afgani in fuga attraverso la rotta del Mediterraneo. 

S&D, futuro incerto

Al pre-vertice del Partito socialista europeo Schlein raccoglie attestatati di stima. I socialisti e democratici vedono nubi nere all’orizzonte delle elezioni del 2024. Gli sforzi per saldare i popolari alla destra conservatrice, di cui Giorgia Meloni è il prodotto più presentabile, disegnano un cambio politico del parlamento e, in prospettiva, della commissione.

Per questo la neosegretaria italiana, che in questo momento ha il vento in poppa (per l’istituto di Antonio Noto il Pd è in risalita al 21 per cento, anche se Fdi, al 29 per cento, resta il primo partito e resta inarrivabile), è una speranza per la malconcia famiglia S&D.

Che infatti la accoglie a braccia aperte: l’ex premier svedese Stefan Löfven si congratula e spiega che la segretaria rappresenta «una grande opportunità» per i socialisti europei. Lei, affettuosamente applaudita, assicura che «il Pd intende dare un grande contributo per far vincere la nostra famiglia».

Parla di lavoro e precarietà con il premier spagnolo Pedro Sanchez, scambia cordialità con la finlandese Sanna Marin. Alla riunione c’è anche il segretario della Nato Jens Stoltenberg, laburista novergese, che twitta la sua soddisfazione: «Dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina, aumentare la produzione di armi e munizioni e continuare a investire nella nostra difesa». Parole impegnative, che spazzano via i dubbi sulla posizione del Pd dell’era Schlein non solo sull’appoggio a Kiev, ormai scontato, ma sull’aumento delle spese militari.

Complicazioni chez soi

Nel frattempo però Schlein deve mettere in ordine le cose a casa, nel suo partito. L’accordo sui capigruppo di camera e senato, su cui i suoi dicono di aver avuto il placet di Stefano Bonaccini, non è piaciuto per niente a Base riformista, che sperava di ottenere almeno il presidente della camera. Schlein invece ha proposto un tandem tutto suo: Chiara Braga a Montecitorio e Francesco Boccia a Palazzo Madama. Con l’offerta di rappresentanti della minoranza nei rispettivi uffici di presidenza, e quattro forse cinque in segreteria. Ma ieri tutte le caselle sono tornate a ballare: l’area di Lorenzo Guerini, ma anche quella di Matteo Orfini e i lettiani capitanati da Marco Meloni minacciano di non entrare in segreteria se ai giuramenti di unità non segue un capogruppo di minoranza. E di non votare il tandem della maggioranza.

Sabato un nuovo incontro Schlein-Bonaccini porterà consiglio. Le riunioni dei gruppi sono fissate per lunedì. Con ogni probabilità per i presidenti si voterà già martedì. La nomina della segreteria seguirà. La minoranza è sempre più divisa fra collaborativi e scettici. Nessuno, fra gli scontenti, ha voglia di intestarsi il primo sgambetto alla segretaria, ma il malumore è forte.

Altro discorso per il capodelegazione a Bruxelles. Mercoledì sera Schlein ha riunito i suoi a cena per parlare dei dossier europei e discutere del nuovo corso. «Oggi non eravamo qui per parlare di assetti interni. Ci prendiamo qualche giorno e faremo assieme le dovute valutazioni», spiega Schlein ai cronisti. La verità è che a meno di un anno dalla fine della legislatura, la guida del gruppo europeo non è ambita: Schlein non la rivendica per la maggioranza, e anche alla minoranza interessa poco. Interessa assai di più la composizione delle future liste per le europee. Per questo è probabile che l’attuale capogruppo Brando Benifei resti al suo posto. Nonostante una mezza gaffe che ha fatto ieri, postando sui social la foto della cena, ma tagliando molti colleghi commensali per apparire centrale nella tavolata, a fianco di Schlein.

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