Stavolta Elly Schlein non la prende larga, non ci gira intorno, come le capita di fronte alle domande dirette sulla coalizione che verrà, ma di cui ancora non si sente alcun vagito. Stavolta risponde dritta a una domanda di Tiziana Panella, durante la trasmissione Tagadà, su La7. Le viene chiesto un giudizio sugli attacchi del leader di Azione, che nel weekend ha fatto «un congresso per opporsi alle opposizioni» (così lo ha definito Nicola Zingaretti su questo giornale) e ha invitato i riformisti del Pd per costruire un’area di «volenterosi», in alternativa allo stesso Pd.

«Penso che Carlo Calenda debba decidere da che parte stare, non si può stare con un piede in due scarpe», dice la segretaria dem, «la linea del Pd è una e chiara: torneremo al governo vincendo le elezioni con una coalizione progressista, senza larghe intese e accordi di palazzo, è questo il mandato che ho ricevuto dalle primarie. Decida lui da che parte stare, non si può stare un po’ di qua e un po’ là».

Calenda, che ha il social facile, coglie al balzo l’occasione di un’altra stoccata, e risponde a stretto giro, durissimo: «Cara Schlein, noi stiamo al centro dove ci hanno messo gli elettori. Non andiamo dietro ai populisti filo putiniani e non ci asteniamo quando si tratta di Ucraina, riarmo europeo e difesa. Il resto è fuffa».

La corda tirata si è spezzata

Una coda velenosa del congresso di Azione era ampiamente prevedibile. A quel congresso Schlein non è voluta essere presente, nonostante gli insistiti inviti di Calenda. Perché l’aria che tirava era chiara: infatti gli attacchi al Pd e al M5s non si sono contati.

Per sovrapprezzo, lì Calenda ha “incoronato” premier del centrosinistra Paolo Gentiloni (invitato, presente e intervenuto): che già è un’azione ostile nei confronti della segretaria dem. E ancora, ha offerto un palco a Giorgia Meloni, che lo ha prontamente utilizzato per attaccare la leader Pd: «Pensa che l’Europa diventi una grande comunità hippie demilitarizzata». Per non parlare di quello che Calenda ha detto all’indirizzo di Giuseppe Conte: «L’unico modo per avere a che fare con il Movimento 5 stelle è cancellarlo».

Al di là delle battutacce, nei due giorni di dibattito, Azione ha platealmente seppellito sotto una pietra tombale l’idea di una coalizione larga, e cioè la strategia che Schlein ha fin qui perseguito, con il suo giuramento di essere «testardamente unitaria». Calenda ha risposto per l’ennesima volta picche: «Se qualcuno di voi mi chiede per tattica politica di essere alleati a chi vuole distruggere il lavoro di De Gasperi (cioè l’unità europea, ndr), vi dico “over my dead body”, trovatevi un altro segretario». Dovreste passare sul mio cadavere, insomma, ha detto il leader alla sua platea, strappando gli applausi.

Storia finita, mai iniziata

Storia finita, dunque, quella della coalizione fra Pd e Azione in un centrosinistra più largo. Anzi, a dire il vero, storia neanche mai iniziata. Perché va ricordato che il partito liberaldemocratico già nell’estate del 2022 ha rotto l’alleanza appena stipulata con l’allora segretario dem Enrico Letta per aver “scoperto” la presenza anche dei rossoverdi.

Dopo l’elezione di Schlein al Pd, e fino quasi a ieri, a niente sono valsi gli sforzi sovrumani delle colombe M5s come l’ex ministro Stefano Patuanelli, che in ogni confronto pubblico ha pazientemente cercato di tenere uno spiraglio di dialogo con Azione. E se mai c’è stata una mezza disponibilità a trovare un accordo con l’ex maggioranza giallorossa, le posizioni di Giuseppe Conte sull’Ucraina, e sulla pace di Vladimir Putin oggi, l’hanno cancellata .

Ieri Schlein ha deciso di mettere un punto. Con Conte non si è sentita: almeno così dicono sia al Nazareno e confermano da Campo Marzio, quartier generale dell’ex premier, dove fervono i preparativi per la piazza del 5 aprile. Ma che al Nazareno l’aria fosse quella dell’«aut aut» si era capito dal messaggio che Igor Taruffi, il dirigente più vicino alla segretaria, ieri ha consegnato a Repubblica all’indirizzo di Calenda: «Non siamo disponibili a larghe intese né a operazioni di palazzo. Ciò che proprio non si può fare è continuare questa politica dei due forni».

Taruffi poi ha lasciato scivolare un avviso: «Occorre capire cosa abbia in testa lui, sia a livello nazionale, sia sui territori». Sui territori: ovvero alle prossime amministrative e alle prossime regionali, cruciali per il Pd, che parte favorito, sulla carta: Toscana, Marche, Campania e Puglia.

Dalle Marche a Genova

Quella del responsabile organizzazione del Nazareno è una indicazione affilata. Azione, nei territori dove ha una qualche presenza politica, si sta disponendo a stringere accordi con il centrosinistra. Ma se la rottura a Roma è così plateale, le cose si complicano. Il numero due di FdI Giovanni Donzelli ha già lanciato un’esca per le Marche. Matteo Richetti, azionista ex Pd, lo ha freddato dicendo che «non ha un giudizio positivo» sull’attuale presidente di destra Francesco Acquaroli, ma che «come sempre valutiamo il candidato e ciò che vuole fare». Comunque nel Pd marchigiano nessuno si è preoccupato. «Quei pochi che hanno i voti stanno già con noi», è il giudizio di un dirigente locale.

E la pensano più o meno così anche al Nazareno, anche sulle altre regioni in ballo. Allo scorso giro, cioè al voto di Liguria, Emilia-Romagna e Umbria, il partito di Calenda ha preso una percentuale che va dall’1,7 al 2,3, ma quasi ovunque insieme a +Europa, al Psi, e alle liste civiche. Quindi da solo pesa, a essere generosi, intorno all’uno per cento. Anche nelle regioni del Mezzogiorno che andranno al voto quest’anno, come Campania e Puglia, non preoccupa l’eventuale assenza di Azione, a cui è andata bene solo in Basilicata, dove si è schierata con la destra e ha preso il 7 e mezzo per cento, sospinto però dall’ex presidente Marcello Pittella.

A Genova, dove si vota in primavera, i centristi sono presenti e ben nascosti in una lista civica, senza insegne, per la gioia dei paletti dei Cinque stelle. Che si sentono incompatibili con Calenda, ma anche con Matteo Renzi. A proposito del tavolo per il voto toscano, il capogruppo alla camera Riccardo Ricciardi ha avvertito: «Se ci troviamo Renzi in quella stanza non entriamo neanche».

Tema sensibilissimo, anche dentro il Pd, dove non è la rottura con Azione a preoccupare. È l’incompatibilità fra M5s e Italia viva. L’assenza del partito dell’ex segretario sbilancerebbe a sinistra tutta l’alleanza. Un’eventualità indigesta per l’area dei riformisti.

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