La parola della giornata è “fiducia”; e in realtà è stata la parola del giorno almeno 27 volte, da quando c’è Draghi. Il motivo di un tale successo è presto detto: la questione di fiducia – chiamiamola col suo nome – è uno strumento formidabile, non c’è che dire.

Secondo la Costituzione, infatti, un governo sta in piedi se ha la “fiducia” del parlamento, se il parlamento gli dice «ok, il tuo programma mi piace, lavoriamoci insieme».

E questo il parlamento lo fa con la mozione di fiducia iniziale, che instaura sul nascere un rapporto che può venir meno solo con un atto solenne uguale e contrario: l’approvazione parlamentare di una mozione di sfiducia.

Su questo la Carta è chiara: non basta il voto contrario su una proposta del governo, perché questo sia sfiduciato e dunque costretto alle dimissioni.

Ma c’è un però. Certe volte, infatti, il governo può ritenere che una sua proposta sia così coessenziale al suo programma, da dire «se non me l’approvi, presumo che sia venuto meno il tuo appoggio, e dunque mi dimetto».

Con brutale semplificazione, è questa la questione di fiducia: la scelta del governo di condizionare le proprie dimissioni al rigetto parlamentare di una sua proposta.

È chiaro che una mossa del genere mette il Parlamento alle strette. «Ti fidi di me; cosa sei disposto a perdere?», canta Jovanotti.

E in effetti se il parlamento si fida – e dunque approva quella proposta – dev’essere disposto a perdere non poche cose.

Anzitutto, perde la possibilità di modificare quella proposta. Niente emendamenti: la proposta è essenziale per il programma del governo così come questo l’ha presentata, e dunque si mette ai voti così.

Poi, perde la possibilità di scomporre la proposta governativa: si vota o rigetta in blocco, senza scorpori o distinguo. Perde (se c’era) la possibilità del voto segreto: le votazioni sulla fiducia, infatti, si fanno sempre a voto palese, perché ciascuno ci metta la faccia. Ma poi, soprattutto, ci perde in termini di libertà decisionale.

E sì, perché la questione di fiducia sa un po’ di ricatto al parlamento: «O me l’approvi – e me l’approvi così com’è – o io mi dimetto».

E se il governo si dimette, anzitutto il parlamento si assume la responsabilità di una crisi di governo, che non è cosa da poco. Ma poi, se il governo si dimette, delle due l’una: o si forma un nuovo governo, con una maggioranza non necessariamente identica a quella di prima – e a chi fa piacere rischiare di rimanere fuori quando si è dentro? – oppure tutti a casa, il Quirinale scioglie le Camere e indice nuove elezioni.

Quindi, il non detto è: «Se non mi approvi questa proposta, rischi di tornartene a casa». E devi essere o sicurissimo di un largo consenso elettorale o del tutto sconsiderato, per rischiare di tornartene a casa.

Non è difficile, quindi, capire come mai i governi siano tentati così tanto dal ricorso a tale strumento, soprattutto se si tratta di governi che non si reggono su maggioranze stabili, ma su carovane più o meno di fortuna che di tanto in tanto necessitano di essere ricompattate.

Non stupisce, quindi, che Draghi, dal febbraio 2021, abbia dovuto farci ricorso 27 volte, tra Camera e Senato.

E non è neanche tanto difficile capire come mai è del tutto improbabile che il parlamento non approvi una proposta con questione di fiducia: nella storia repubblicana è successo solo due volte, entrambe col povero Prodi, nel 1998 e nel 2008.

Anche oggi il governo ce la farà, anche se non sarà proprio una gran performance. L’astensione di parte della maggioranza politica consente l’approvazione della proposta governativa (perché la regola è che gli astenuti si considerano non votanti, e dunque l’asticella per raggiungere il 50% + 1 dei voti si abbassa), ma non è certo quel «lavoriamoci insieme» che dovrebbe esserci per far stare in piedi un governo. 

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