«I primi di settembre noi genitori ci siamo organizzati in squadre e abbiamo fatto i turni. Per le regole di sicurezza non potevamo entrare a scuola. Allora gli insegnanti, che avevano passato l’estate a svuotare le aule e i corridoi, hanno tirato fuori gli armadi e i banchi da buttare e noi li abbiamo portati all’isola ecologica. Poi abbiamo sistemato il giardino, ma con le mani perché la dirigente non poteva prendersi la responsabilità di darci la corrente per gli attrezzi. Poi siamo andati in giro a cercare locali. E abbiamo trovato le stanze di un oratorio». Mentre dal cielo piove l’ira di dio, Vanna e Tiziana, del quartiere Appio Claudio di Roma, raccontano la loro storia: hanno tre e due figli fra fra i 4 e gli 11 anni, da loro le scuole hanno riaperto solo grazie al fai-da- te. Prof, genitori, alunni e studenti, si sono arrangiati.

La piazza del Popolo scolastico

Ma è una storia che si ripete cento volte, e che ha incontrato cento intoppi diversi, basta ascoltare le voci di piazza del Popolo, dove sono arrivati e arrivate in migliaia, da trenta città, anche se il meteo prometteva burrasca. Promessa mantenuta. Ma la piazza si è riempita lo stesso, nonostante i varchi, i numeri contingentati, le mascherine, le distanze obbligatorie. E gli ombrelli. «Nella scuola di Tito, le elementari Vittorio Veneto, mancano gli insegnanti, il tempo pieno non è partito e non si sa quando partirà. In quella di Corso, la Sant’Ambrogio, avevano già i banchi singoli, ma non c’è la mensa e non c’è il dopo-scuola, anche qui mancano ancora molti docenti e le prime nomine erano state sbagliate, hanno dovuto rifare tutto da capo. La digitalizzazione? È partita con un mezzo disastro». Due figli, quattro e sei anni, Costanza Margiotta ha 47 anni, vive a Firenze e insegna all’università di Padova. Nelle prime settimane di lockdown con altri genitori ha scritto una lettera alla ministra Lucia Azzolina, le chiedeva di dare «priorità alla scuola». Ma non ha ricevuto risposta, da lei.

Una comunità in movimento

Sono arrivate invece a migliaia le risposte di altre mamme e altri papà, di prof, di studenti. È nato così, la scorsa primavera, un movimento che in poche settimane ha contagiato sessanta città e che già a maggio chiedeva al governo di organizzare subito e bene le riaperture degli istituti, di girare il male della pandemia nel bene di una riorganizzazione della scuola. Ormai la lista delle sigle «della comunità scolastica» sono decine, anche i sindacati c’erano, «abbiamo scelto di fare una manifestazione e non uno sciopero perché stiamo lavorando in piena solidarietà con le famiglie», spiega Francesco Sinopoli, segretario Flc Cgil.

Tutti e tutte chiedono al governo che dia davvero «priorità alla scuola», «sicurezza, presenza e continuità», un investimento straordinario di 20 miliardi dal Recovery Fund perché il diritto allo studio torni in tutto il paese, una spesa ordinaria del 5 per cento di Pil. Per combattere all’abbandono scolastico, la precarietà degli insegnanti, le inefficienze strutturali della scuola pubblica.

Solo tra i banchi

Il loro simbolo è un bambino sperduto fra i banchi vuoti. Molti di quelli che lo portano disegnato sugli striscioni non lo sanno, ma è il piccolo Antonio Gramsci disegnato da Luca Paulesu, avvocato ma fumettista per passione, autore di una fantabiografia che ormai è un classico. Paulesu è il marito di Paola. «Io lavoro in una scuola in cui tutto sommato ci stiamo organizzando, la chiamerei una scuola di serie A, ma questa riapertura confusa e infelice ha fatto esplodere le differenze», continua da sotto l’ombrello accanto Gloria di Faenza, prof di storia e filosofia, «mentre venivo in treno ho incontrato quattro studenti che ogni giorno fanno tre blocchi da cinquanta minuti, passano più tempo in treno che a scuola», «il diritto allo studio è legato al diritto al lavoro: se i miei figli non vanno a scuola io resto a casa».

«Da noi, al liceo Einstein di Milano», spiega Ludovico Ottolina, 18 anni, dell’Unione degli studenti, «in teoria si poteva ripartire in presenza. Ma ha riaperto solo il biennio, il triennio riapre lunedì: il comune non è riuscito a garantire i trasporti per arrivare a scuola». Elena, bellissima giovane mamma con due ragazzini in braccio, lavora a Firenze come impiegata e fa i salti mortali, «il tempo pieno non c’è perché gli insegnanti non ci sono, le supplenze lunghe non sono state ancora assegnate». Cristina invece vive a La Spezia, dove per via della ripresa dei contagi riapriranno solo lunedì, ma lavora a Massa Carrara, fa l’insegnante di sostegno, precaria da cinque anni. Aspetta il prossimo concorso, ammesso che arrivi. Prima viveva a Londra e insegnava arte all’università: «Mancano gli insegnanti e le scuole si fermano. E scopriamo che le nostre scuole vivono sul precariato».

Sono duecentomila quest’anno, secondo i numeri recitati dal palco. Anche nell’istituto Cristina si fanno i turni: le prime e le quinte in presenza, tutti gli altri a casa, con la didattica a distanza. Quella che questa piazza urla a più voci che non può essere se non una scelta «di emergenza». Il palco è aperto dalla musica di Alice Clarini, cantautrice romana che saluta i ragazzi, «state facendo la cosa giusta», e chiuso dagli Assalti frontali, storica band di rapper impegnati nei laboratori con i più piccoli in un’istututo ormai storico della Capitale, intitolato a Simonetta Salacone, direttrice-simbolo delle battaglie per l’inclusione scolastica.

«Riaperture ordinate»

Ci sono tutti: quelli che fanno i turni, quelli che hanno metà classe a distanza, quelli che fanno l’orario breve o brevissimo, quelli che ancora non sono tornati tra i banchi. Per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte «la scuola ha riaperto in modo ordinato», e «la ministra Lucia Azzolina ha fatto molto». Ma non può non ammettere che «la digitalizzazione ha messo in evidenza alcuni errori».

C’è un mondo che contiene mondi nel mondo della scuola. Anche quello di Ismail, 18 anni, studente di un artistico del centro di Roma che torna a casa in una casa occupata. Un’associazione ha scelto questa piazza per protestare contro l’emergenza alloggi: tutti studenti anche loro.

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