«La diplomazia della scuola? La nostra scuola ha un grande valore e sarà il centro di un progetto di cooperazione verso un continente strategico come l’Africa». Per esempio, con l’apertura di scuole italiane in Africa: a parlare è il neoministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara in una recente intervista. 

La frase, spiegano dal ministero, per ora è solo un’idea programmatica che andrà articolata nei dettagli, ma l’idea di fondo è quella di «esportare lo sviluppo» in regioni strategiche e limitrofe come l’Africa per tornare, attraverso le politiche di sostegno, al centro della scena geopolitica del Mediterraneo con un focus particolare sull’istruzione tecnica e professionale.

L’idea di aumentare l’influenza culturale in Africa non è nuova né Valditara si troverebbe senza concorrenza, considerato che già da tanti anni potenze di prim’ordine come Stati Uniti, Cina, Russia e Francia tentano di allargare la loro base di consenso nel continente. Ma, al di là di questo, c’è un problema più complesso, cioè la competenza sulla diplomazia culturale italiana, che in realtà appartiene al ministero degli Esteri.

Il ministero dell’Istruzione non ha ancora discusso della costruzione di scuole italiane in Africa con la Farnesina, ma è il ministero degli Esteri ad avere l’ultima parola su scuole italiane, istituti culturali e lettori universitari italiani. Sono queste tre delle aree che rispondono alla Direzione generale per la diplomazia pubblica e culturale, una creatura inaugurata dalla Farnesina il primo gennaio di quest’anno e gestita dall’ambasciatore Pasquale Terracciano.

La genesi

Il percorso per realizzarlo è partito quanto la segretaria generale era ancora Elisabetta Belloni, prima della sua nomina a capo del Dis a inizio del 2021. Con la benedizione dell’allora ministro Luigi Di Maio, il processo è andato avanti sotto alla guida dell’esperto successore di Belloni, Ettore Sequi, che ha promosso il nuovo progetto in ogni sede. 

«La partita di una efficace diplomazia pubblica si gioca in un’arena diversa da quella dei rapporti tra governi» scriveva a gennaio sul Sole24Ore, sottolineando il ruolo di «superpotenza culturale» dell’Italia e spiegando come dirigere la diplomazia italiana «senza sfruttarne il soft power significherebbe privarsi di uno strumento tanto immateriale quanto efficace».

Il concetto di soft power è stato definito dal politologo di Harvard Joe Nye nel suo libro del 2004 Soft power: un nuovo futuro per l’America ed è riassumibile come l’abilità nella creazione del consenso attraverso la persuasione e non la coercizione. 

Il senior adjunct professor alla Johns Hopkins University David Ellwood lo definisce il successore del vecchio concetto diplomatico di “prestigio” e ha analizzato da vicino il grande investimento compiuto dalla Farnesina nella diplomazia pubblica, un ramo che unisce diplomazia culturale e propaganda e che percorre vie non dissimili da marketing e creazione del brand per promuovere l’immagine di un paese all’estero. 

La nuova Direzione si occupa proprio di questo aspetto. Nel Global soft power index 2022 pubblicato da Brand Finance l’Italia risale al 10° posto dal 19° dopo un calo dovuto alla pandemia, in recupero soprattutto grazie al contributo che dà il turismo. Ai primi tre posti ci sono Stati Uniti, Regno Unito e Germania. Ellwood individua cinque pilastri del soft power italiano: cibo e vino, moda e design, macchine sportive e treni, patrimonio culturale e patrimonio paesaggistico. 

La Farnesina si occupava della promozione di questi aspetti già prima, ma all’interno di un programma più ampio denominato Promozione del sistema paese che includeva anche la promozione dei rapporti economici internazionali. Ora la Direzione per la diplomazia pubblica si occupa in maniera più mirata dell’aspetto culturale e linguistico e ha visto aumentare i fondi specifici destinati alla sua missione: se nel triennio 2018-2020 tutto il programma Promozione del sistema paese disponeva di circa 196 milioni all’anno, ora soltanto la nuova direzione gestisce circa 180 milioni l’anno ripartiti sull’attività di quattro uffici.

Salto di qualità

La strategia prevede l’apertura entro l’anno prossimo di sei nuovi istituti culturali, che si vanno ad affiancare alle sette scuole statali e 42 paritarie nel mondo. Le nuove sedi saranno Almaty, Amman, Bangkok, Hanoi, Miami e Sarajevo. A quel punto, gli istituti saranno novanta in tutto, una cifra che resta ben lontana dai 158 Goethe Institut, dai 100 (con 128 “antenne”) Institut français e dai 200 British council in giro per il mondo.

Come lo restano i fondi impiegati per questa missione dallo stato italiano in comparazione a quelli stanziati dai competitor: se il titolare della diplomazia culturale tedesca dispone di dieci volte i fondi italiani, la Cina soprattutto negli anni ‘10 del 2000 ha destinato a questo scopo cifre con cui non può competere nessun paese europeo. Anche se oggi il programma degli Istituti Confucio è in dismissione a causa del cambiamento delle priorità di Pechino e di un’ostilità maggiore delle cancellerie europee alla propaganda, la formula cinese dell’apparentamento con le università locali aveva dato ottimi frutti in termini di presenza dei presidi culturali in occidente. 

Le ragioni del ritardo italiano su questo fronte, che pure è parzialmente compensato dall’efficacia di altre iniziative culturali organizzate dalle rappresentanze diplomatiche, vanno cercate nella storia. Regno Unito e Francia hanno potuto appoggiarsi al loro passato coloniale. Non è un caso che la Francofonia, cioè la diffusione geografica della lingua francese, è una delle leve più forti del softpower d’Oltralpe e descrive ormai un’identità comunitaria, oltre che puramente linguistica.

La Germania ha iniziato a coltivare il proprio soft power ai tempi di Willy Brandt, negli anni ‘60, quando da ministro degli Esteri il futuro cancelliere descrisse la Auswärtige Kulturpolitik (politica estera culturale) come il terzo pilastro della politica estera, accanto alla diplomazia pura e la politica estera economica. Oggi, poi, può approfittare di una potenza di fuoco economica invidiata anche a Roma. 

Alla Farnesina dopo l’ampliamento della rete di istituti di quest’anno si prevede di proseguire con un percorso di stabilizzazione dell’esistente, rafforzando le sedi già affermate con nuovo personale, in modo da poter dedicare più forze alla diffusione del patrimonio culturale. Anche se è ancora presto per misurare i risultati, le iniziative già avviate dalla nuova Direzione sono parecchie, dalle celebrazioni per il centenario dell’inaugurazione del primo istituto culturale italiano a Praga alle Settimane della lingua italiana. In generale i diplomatici stanno cercando di mettere a sistema tutti i circuiti che portano l’Italia all’estero: ambasciate e consolati, ma anche attività del ministero della Cultura e di quello dell’istruzione, per l’appunto.

Aspetto politico

La diffusione dell’immagine dell’Italia all’estero è un obiettivo costante di tutte le amministrazioni politiche e la Farnesina è nota per essere un motore piuttosto indipendente dalle coloriture del governo di turno, ma sarà interessante osservare le ulteriori strategie di diplomazia culturale se il primo obiettivo del nuovo governo Meloni dovesse davvero essere l’influenza culturale italiana in Africa. Secondo Ellwood, il rischio è quello del predominio di «una nuova forma di provincialismo militante» che si nutre di sovranismo e della diffidenza verso le istituzioni europee tipica di Lega e Fratelli d’Italia e si potrebbe tradurre in una nuova strategia diplomatica.

Di certo per l’apertura di nuovi istituti e scuole italiane dopo la fine di quest’anno si dovrà aspettare qualche tempo. Anche perché, per costruirli ci vogliono fondi ma soprattutto un bacino d’utenza. O almeno radici storiche, come nel caso della scuola di Addis Abeba. Chissà quant’è grande l’attesa per l’istruzione italiana nelle destinazioni individuate da Valditara.

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