La tumultuosa assemblea dei 5 Stelle di ieri (come da cronaca di Matteo Pucciarelli su Repubblica) solleva un problema serio. Che non affligge solo il Movimento. È quello dell’unità e della compattezza dei vari gruppi parlamentari.

Del resto, l’espressione “franco tiratore” è puro gergo di Montecitorio, un modo di dire nato negli anni Cinquanta, e preso in prestito dal sinonimo francese di cecchino, di tiratore scelto.

Un’espressione fatta apposta per nobilitare il traditore di partito (o di corrente), colui che vota in dissenso dalle indicazioni dei suoi capi, ma senza prendersi responsabilità, coprendosi con la segretezza del voto.

Ai tempi del partitone democristiano, nella prima Repubblica, si consumarono regolamenti di conti e grandi nefandezze con questo sistema. Dinamiche che nella seconda Repubblica si sono riprodotte soprattutto nel Pd (i 101 che mancarono a Prodi) come ha spiegato bene qui Giulia Merlo.

Oggi le leadership dei partiti sono appannate, forse con l’unica eccezione dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e i franchi tiratori sono temuti un po’ da tutti. Potrebbero essere loro a impallinare Mario Draghi in caso di largo accordo alla prima votazione.

Sono sempre loro a spaventare Silvio Berlusconi, oggetto dei possibili nemici interni. Preoccupano Giuseppe Conte, qualsiasi sarà la sua indicazione di candidato o candidata ai gruppi. Oggi il Giornale scrive che Massimo D’Alema ispira fra i 40 e i 60 franchi tiratori del centrosinistra. Sulla salita al Colle, fin dal secondo dopoguerra, il loro tiro ha sempre preso d’infilata: prima di Romano Prodi, caddero Franco Marini, Arnaldo Forlani e giù giù, fino alla prima vittima, il repubblicano Carlo Sforza, maggio 1948.

Non hanno niente di franco, di eroico, di davvero leggendario. Ma certo soddisfano gli istinti sadici, compreso il senso qualunquistico di antipolitica, che ci sono in ognuno di noi. Solo in due occasioni nella storia dell’elezione dei 12 presidenti sono stati neutralizzati: prima con Cossiga e poi con Ciampi. In questo 2022 rischiano di esserci, eccome.

La pinacoteca di Berlusconi

L’unico a parlarne, con cognizione di causa e per familiarità col personaggio, è Vittorio Sgarbi. Si tratta dei quadri cui da qualche tempo si dedica Silvio Berlusconi, ultima mania.

Sgarbi spiega che il Cav punta alla quantità, più che alla qualità e sostiene di averlo consigliato, a più riprese, di investire meglio le sue risorse: su meno dipinti, ma davvero belli, d’autore.

«Berlusconi è fatto così, ogni tanto mi vuole sfidare sul numero delle tele… si mette in competizione. E alla fine regala un sacco di opere in giro», dice il critico.

Oggi Francesco Verderami sul Corriere nel retroscena delle mosse del Cav per ottenere il Colle, racconta di un dono fatto ad un grande elettore: «"Onorevole, c’è un pacco per lei”. “Va bene, lo tenga lì. Poi passo a prenderlo”. “Onorevole, è così grande che non riesco nemmeno a fotografarlo”. “Ma cos' è?”. “Sembra un quadro”. Erano due enormi tele provenienti dalla quadreria del Cavaliere, custodita in un capannone industriale vicino ad Arcore».

La sconfinata, gigantesca quadreria di Mr. B. che attende di invadere il palazzo del Quirinale.

Le cancellerie e il voto per il Colle

Si dice che sia difficile diventare presidente della Repubblica contro il volere dei nostri alleati occidentali. E in effetti i dodici presidenti arrivati al Quirinale hanno tutti avuto ottimi rapporti con i nostri alleati.

Oggi sulla Stampa l’analista di Limes per le vicende Usa Dario Fabbri scrive: «L’amministrazione statunitense denota idee molto chiare. Per gli apparati d’oltreoceano Draghi dovrebbe migrare al Colle. Abituati a ragionare sul piano strategico, gli americani lo vorrebbero al Quirinale per evitare che finisca scalzato da manovre surrettizie o dall’umoralità dei partiti».

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